Cavazzano oltre Disney

Giorgio Cavazzano è principalmente conosciuto per essere il disegnatore di Topolino e di Paperino, e sulle orme di altri padri interpreti ha creato lui stesso un segno inconfondibile nell’universo Disney. Per i bambini diventati adulti che hanno smesso di mangiare il Cucciolone e gli stessi per cui i fumetti sono ora una collezione da far leggere ai figli a casa dei nonni, Cavazzano ha avuto una produzione oltre Disney davvero notevole. 

Sono una bambina.
Quanto mi scoccia percorrere quel tratto che separa la passerella centrale del 16 al bar del 18, oltre l’altro lato di ombrelloni nei quali non conosco nessuno, poi il 17, quelli che ti guardano da lontano furtivamente o anche meno, quasi invadendo uno spazio non tuo, uno spazio nel quale non devi stare. C’è una frase di un libro che ho amato molto e che dice: “È evidente dottore che lei non è mai stato un ragazzina di tredici anni”.
Gli sguardi degli altri mi danno fastidio, mi hanno sempre dato fastidio. Anche quando la passerella da percorrere è quella del 18, come adesso.
Le 5000 lire sono quelle che ho sempre chiamato etrusche, mi ricordano un libro che mi hanno fatto leggere le suore a scuola, sulla Mesopotamia, e la copertina sottolinea molto bene segni e immagini non nostre, non comuni, non ricettive nel contesto che vedo ogni giorno. Assomigliano a qualcosa di antico, come i geroglifici, qualcosa di sepolto e polveroso, come ci si immagina i vasi etruschi. Ma ho 7 anni, l’Italia di Bearzot è appena diventata campione del mondo al Mondiale del 1982 in Spagna, e buche e siringhe a parte, non ci sono molti pericoli qui, anche se la Publiphono elenca tanti bambini dai costumi di colori svariati che riescono a perdersi e quella pubblicità di quel Dancing, il Las Vegas “in fondo a destra”.
Da grande, imparerò che quelle 5000 lire erano state coniate dal 1979 al 1983 e che in quel grigio/marrone/rosso mattone con sfumature verdi c’era il volto di Antonello da Messina e vari monumenti tra cui la Fontana delle Tartarughe in Piazza Mattei a Roma.
Da grande imparerò che le buche sono un bellissimo ricordo di terrorismo psicologico che solo per protezione genitoriale mi è rimasto addosso, dopo che l’estate prima Alfredino Rampi in un pozzo ci è morto – ricordo ancora la vignetta e il disegnatore chiamato a disegnarla, a interpretare la posizione del bambino in quella buca: leggevo già fumetti e pensai con quel disegno alla magia, alla potenza delle vignette, che potevano rimandare e far comprendere, capire immediatamente, qualunque cosa, anche una situazione così drammatica come la posa del bambino in quel pozzo -, e che le siringhe erano qualcosa da cui stare molto lontani quando le si vedeva a terra.
Intanto sono arrivata al bar. Il babbo mi ha detto di riportare il resto. Le 5000 lire sono stropicciate nelle mie manine sudate ed è possibile che qualcuno mi dica una cosa tipo cosa ci fa una bambina con tutti quei soldi in mano.
Il bar ha una tettoia di simil bambù, in fondo, lungo il lato che corre parallelo alle cabine del 17: c’è l’entrata laterale dalla quale si arriva dritti al juke-box, quello con i bottoni alti e bianchi, che se non spingi bene il pulsante lungo e tondeggiante non fa partire il 33 giri, si incastra e i 20 centesimi te li mangia. Nelle attese, giocavo con quei pulsanti: il polpastrello vi calzava perfettamente e quando potevo mettere una canzone e quella partiva, se piaceva a chi era seduto, era un momento veloce di piccola gloria; la gente si voltava per chiedersi chi avesse messo quella bella canzone al juke-box e mi guardavano, una bambina magra con la bandana in testa. Guardavano me, quegli sguardi che volevo comandare, quelli che mi servivano per non sentirmi sempre sbagliata, pur non sopportandoli.
Arriva il babbo, per fortuna. I capelli sono bagnati, i riccioli lunghi e la pancetta, lo slippino verde scuro e la sigaretta in bocca. Vuole il caffè, io il gelato da dividere con mia sorella ‘che tutto intero non lo mangio perché ha la cioccolata. Il pericolo è passato, la mamma ha letto che la cioccolata non fa male ai bambini, ma va solo moderata: solo che per mia sorella è un paradiso che si apre, per me è riluttanza totale (che non passerà nemmeno da adulta). Gli do i soldi e inizia a far la fila alla cassa, posta in un angolo. Il banco invece è davanti alla cucina, vista mare, e i banchi dei gelati e i frigo con le bibite a destra e a sinistra: ma quello con il gelato che voglio io è sulla sinistra con le spalle al mare. Arriva anche mia sorella. Posso prendere il Cucciolone e mangiare solo la crema, ma prima leggo la vignetta, prima di mangiarmela.
È caldo. Il gelato inizia ad ammorbidirsi e spesso leggere le vignette rende i ditini appiccicosi di biscotto.
Lo dividiamo. Finisce in un secondo. Un tempo brevissimo di freschezza che si scioglie in gola, e ce lo facciamo bastare quel flebile, velocissimo, istante.
Dopo, andiamo a lavarci le mani alla fontanella.

A un certo punto la mamma decide che si cambia bagno. Lasciamo Attilio e Romeo e sloggiamo al 16, da Giorgio. Due bagni di distanza, duecento metri scarsi, ma nella prospettiva di bambina sembrano universi lontanissimi.
È l’estate del maggiolino nero con la cappotte beige. Non dura molto, il babbo facendo retromarcia la schianta contro un albero. Io e mia sorella, sedute incautamente sopra i sedili e usando come schienale la cappotte arrotolata, scivoliamo alla botta lungo la pelle e le fini cuciture volkaswaghen, perché Wolkswagen era troppo difficile da pronunciare e quel film su Wonka e Charlie ci era piaciuto tantissimo (anche se parlava di cioccolata) e l’assonanza di Wonka/Wolk faceva il resto nella mente di una bambina che si concedeva licenze artistiche prima di scegliere di poterlo fare come lavoro.
Gli amichetti delle estati passate rimangono al 18, noi ce ne facciamo di nuovi al 16.
Il babbo mi regala il suo portafogli di Cartier con gli angoli dorati: lui se ne è preso uno nuovo, io inizio a essere un po’ più grande e l’Italia ha fatto una figuraccia al Mondiale del 1986, in Messico. Un borsellino di quelli da uomo, con gli spazi per le carte di credito e prive di portamonete per cui gli spiccioli escono sempre: dentro una carta preziosissima di 5000 lire, quelle verdi, con Bellini ritratto che ho sempre pensato fosse Leopardi. 5000 lire: era la mia paghetta della settimana, in estate, e potevo farci un sacco di cose. Gelati, fumetti, e poteva anche rimanermi qualcosa da sommare a quella successiva.
Sono al bar del 18. Dal 16 si ha il bar del 18 sulla sinistra e il bar del 14 sulla destra, si è proprio nel mezzo, si può scegliere, i gelati sono simili, è solo una questione di abitudine e conoscenza, fidarsi dei luoghi, sapere dove sono le cose – la cassa, il banco gelato -, è una forma di fiducia dello spazio e di se stessi in quello spazio. Ci sono questi nuovi gelati confezionati dell’Algida, è simile o comunque non capisco perché la Eldorado e la Toseroni abbiano gelati abbastanza simili all’Algida o è quest’ultima che li copia. Poi rimarrà solo Algida e qualche ricordo sbiadito di una marca di gelato con un ovale bianco e azzurro e una scritta dentro su righe verticali bianche e rosse a simulare la tenda di un negozio. I bar nuovi sono appunto nuovi, c’è da imparare come funziona stare in un bar nuovo, i meccanismi, conquistarsi una nuova fiducia, dal banco gelato al juke-box diverso e alla cassa. È al bar del 14 che al juke-box metterò Last Christmas degli Wham in agosto, mentre sguardi sonnecchianti e straniti guarderanno chi ha scelto quella canzone. È, insieme alla scelta di tifare Milan, un altro gesto di ribellione contro la società: mi oppongo a ciò che dice il mezzo media, se a me piace una cosa mi piace a prescindere dal consumo veloce e a tempo determinato. Last Christmas è di fatto una bella canzone, George Michael ha una voce soave e l’estate è la stagione dei nuovi amori e delle cotte che finiranno a settembre.
Veronica è una delle ragazzine che frequentavano il 18. Giocavamo insieme agli altri bambini, facendo le buche nella sabbia. Ha un paio d’anni più di me: è sottile, ma abissale, tra gli 11 e i 13 anni per le ragazzine c’è un mondo completamente nuovo da imparare a vivere. Lo scopro quando capita anche a me, di avere 13 anni. Mi chiede se voglio partecipare a un torneo di pallavolo. Le reti nuove oltre le cabine delle toilette sono la nuova e innovativa attrazione della spiaggia. Lo chiamano all’inglese, all’americana, beach volley. Io sono sportiva, posso essere brava, e posso conoscere i ragazzini e le ragazzine più grandi, se gioco bene possono pensare che sono figa e diventare miei amici. C’è una quota di iscrizione: 5000 lire. Ci penso, si scoccia di aspettare perché chiaramente vuole una risposta veloce, o sì o no, evidentemente non è abituata a gente indecisa. Le dico sì, partecipo!, sfilo le 5000 lire e vedo fumetti e gelati puff!, in una nuvoletta spariscono. Se ne va con i soldi. Nel 1986, 5000 lire erano soldi, ma parecchi per una bambina.
Sogno slanci sulla sabbia mentre mi allungo per salvare un colpo decisivo, sogno salvataggi e vittorie fino a vincerlo, quel torneo, sogno ragazzini che pensano che sono brava e che penso che pensano che sarebbe bello avere la mia amicizia.
Arrivano il babbo, la mamma con le amiche e mia sorella. Chiedo al babbo se mi compra il gelato. Mi chiede dove sono le mie 5000 lire, rispondo che li ho dati come quota di partecipazione a un torneo di pallavolo in spiaggia, alza gli occhi al cielo dopo aver detto una parolaccia e un “costoso, però!” e, sempre con la sigaretta pendente dalle labbra, ci compra i gelati e il suo caffè.
Mia sorella è contenta. Ogni volta che prendo il Cucciolone, lei sa che riceverà un gelato e mezzo, perché la parte con la cioccolata gliela lascio sempre. Con il tempo, non mi chiederanno più se voglio assaggiare un gelato con la cioccolata. Leggo la vignetta, sorrido, il fumetto mi salva sempre e con la crema va giù anche il senso di colpa di aver dato 5000 lire con così tanta leggerezza.
Passa il fine settimana. Cerco Veronica al bar ogni giorno. Quando finalmente la incrocio, le chiedo se mi fa sapere del torneo. Sono trascorsi più di trent’anni, eppure se ripenso a come mi disse quella frase, stento a credere come una ragazzina potesse essere così stronza a quell’età. Mi disse che avevano già giocato, di mattina, la mia squadra aveva perso e quindi niente. Già, niente: niente salvataggi, niente rimonte, niente colpi spettacolari e niente gloria e nemmeno amici. Non ricordo se le dissi qualcosa o incassai, credo andai in corto circuito, di certo ero una bambina che poteva essere fregata con pochissimo, troppo buona e che a volte si fidava un po’ troppo delle persone. Con Veronica non ci parlai più. La rividi decenni dopo in un negozio che a Rimini faceva molto figo, in centro, uno di quelli di design da casa. Poi, con la crisi, il negozio chiuse.
Ma ho l’immagine sorridente di mia sorella che con l’apparecchio mangia un gelato e mezzo. Io rimanevo con le mie vignette, e i Fior di Fragola, o le coppette panna e fragola. Se eri una bambina, già strana di suo e che leggeva fumetti, alla quale non piaceva la cioccolata e che aveva una passione sfegatata per il calcio tanto da essere chiamata Careca da un amico della mamma, era un disastro.
Ma mi accorgo che il Cucciolone dell’Algida ha un disegnatore nuovo: se ne accorgono in pochi, chiedo agli altri bambini se si sono accorti che il segno è diverso. Loro masticano e dicono no, leccandosi le dita. Io sì, io me ne accorgo. Negli anni il fatto di accorgermi di cose che non interessano a nessuno o che nessuno nota mi avrebbero creato grandi problemi di autostima, arrivando a pensare di essere sempre e inconfutabilmente sbagliata, senza possibilità di rimedio, ero fallata, non meritavo niente. Poi, fortunatamente o sfortunatamente si cresce, e tutte quelle persone che mi facevano sentire sbagliata, sono perse da qualche parte, e ogni tanto qualcuna mi fa pure i complimenti per i miei fumetti ostentando la conoscenza. Sorrido, amaramente. Lascio stare, non importa più.
In un qualche modo scopro che il disegnatore è diverso, i disegni sono semplicemente più belli. Quel segno che ancora non chiamo con il suo nome – raffinatezza del segno -, lo ritrovo in qualche storia di Topolino. E poi assomiglia tantissimo a quel Capitan Rogers che mi piaceva moltissimo leggere su Il Giornalino. Confronto come un calligrafo le curve, i tratteggi, le forme: sì, è lo stesso, lo stesso del gelato. Inizio a gustarmi maggiormente le storie disegnate da quel disegnatore che non ha ancora un nome, inizio a ricercarlo, se nei Topolino non riconosco il suo segno, non lo compro, preferisco il Guerino del babbo, altra materia proprio. Con Gianni De Luca sul Giornalino mi capita lo stesso, con Tacconi uguale.
Poi, sul Giornalino, quando esce una delle puntate de La freccia nera a fumetti tratta dal romanzo di Robert Louis Stevenson in neretto, nell’angolo in basso a sinistra, compare un Disegni: G. De Luca. G.DeLuca. G per Giorgio, Giovanni, Gino, Glauco, G. Scoprirò anche la G, un giorno, ma sempre un giorno, io disegnerò fumetti e sarò brava come lui. Poi scopro anche G. Cavazzano sotto Capitan Rogers. Ritorna, G.Cavazzano anche su Topolino. Bingo, è la stessa mano. G.Cavazzano, G.De Luca, F.Tacconi, M.Morri aggiungo così, nei sogni di bambina. Quel maledetto punto! Iniziai a odiare il punto come forma grammaticale. Poi scoprii i loro nomi e il punto mi piacque di nuovo.
Mi faccio comprare La freccia nera in romanzo nell’edizione della Mursia. Sono una bambina che si accorge che nei libri e nei fumetti accadono cose magiche, i personaggi possono essere amici, quelli che Veronica non sarà mai, amici più veri di quelli reali, con i quali dialogare e non sentirsi mai soli e incompresi.
Il babbo nel frattempo mi dice: lo leggi poi però! mentre paga e scicca la cenere dalla sigaretta. Oh babbo, l’ho letto talmente tanto, perdendomici, che le pagine si sono staccate e ce l’ho ancora, nella mia libreria da adulta.
Affogo tutti i miei problemi di bambina/ragazzina che affronta e scopre il mondo nel Cucciolone disegnato da G.Cavazzano, lasciando sempre la parte con la cioccolata a mia sorella o a mio babbo. Poi si cresce ancora e certi gelati iniziano a essere robe da bambini. I fumetti anche. Ma io non lo accetto. Ne ho ancora bisogno. Ho ancora bisogno di amici che mi capiscano.
Topolino fa uscire delle storie che chiama come Game qualcosa: sono bellissime e Cavazzano ne disegna parecchie, le più belle penso a quel tempo e trent’anni dopo anche. Sono storie nelle quali Topolino e i suoi amici vivono avventure e investigano, fino a quando prima di girare pagina c’è la doppia possibilità: vuoi che Topolino beva? Allora gira pagina. Vuoi che non beva? Salta e vai a pagina 39. E via così, ogni tot pagine una scelta, ogni tot pagine una storia che si completa. Il mio cervello di bambina/ragazzina impazzisce: tutte quelle storie che si possono comporre e creare e tutte con un filo logico. Iniziano a piacermi da matti le varie possibilità anche nella vita, osservare, osservare, osservare, a scuola, in spiaggia, nel mondo. Io ferma, a osservare e a vivere eruzioni vulcaniche nel mio cervello, dentro di me, un mondo, un trambusto che non riesco a tenere a bada: e allora disegno, gioco a pallone e disegno, scarico ovunque, affino il sinistro con il tiro a giro nel sette e disegno, sui fogli bianchi, sui fogli a quadretti, sui fogli a righe.

Poi cresco ancora.
Il liceo, i miti greci, latini, l’Eneide. Questo mondo pseudo adulto fatto di maglioni della Stone Island, di felpe Best Company, di montoni con il collo di pelo di pecora, di Mandarina Duck e Timberland con il salsicciotto, io non sono pronta. Va bene imparare il latino, tanto ce lo insegnavano già le suore in quinta elementare, ma perché nessuno legge fumetti?
Passo al liceo artistico: diciamo la stessa cosa, ma almeno si disegna, qualcuno che legge fumetti c’è e insomma, lo considero un giusto compromesso. Ma ho lo stesso sedici anni: c’è il ragazzino figo che non ti considera, c’è l’amica del cuore, c’è il capire te stessa, c’è l’autostima ballerina, c’è tutto quello che si vive a sedici anni. Ma mi chiudo in casa, sul mio tavolo in legno laccato bianco che è ancora oggi quello, a 41 anni disegno ancora sul mio tavolo di bambina, e creo, disegno le mie prime storie a fumetti, storie d’amore orrende che scimmiottano Beverly Hills 90210, senza Dylan, senza Brenda, senza Kelly, senza Beverly Hills ma con Rimini, San Giuliano e la fontana della balena, scultura di Ezio Morri.
Quando sono in crisi, riprendo e sfoglio G.Cavazzano, G.DeLuca, F.Tacconi.
Scopro i nomi: GIORGIO, GIANNI, FERDINANDO. Scopro Il commissario Spada, e i lavoro shakespeariani di GIANNI De Luca. GIANNI, un dio diverso da van Basten che in quegli anni obnubilava la mia mente di adolescente, ma un altro, più vero in un qualche strano modo, più vicino forse, perché potevo aspirare ad avvicinarmi. Certo, giocavo a pallone, ma andiamo, mica potevo finire a giocare nel Milan, Sognando Beckham era di là a venire e il calcio femminile lo trasmettevano tardi, male, e io riconoscevo solo la coda bionda di Carolina Morace. Disegnare invece, raccontare, scrivere, potevo riuscirci.

Mi impongo.
Non voglio iscrivermi all’università – non subito almeno -, voglio disegnare fumetti, voglio andare a Milano, c’è anche lo zio vicino: voglio disegnare fumetti, e se serve mi faccio le stagioni e pago un po’ della retta.
A diciannove anni, i miei migliori amici li trovo nei fumetti e l’unico modo che conosco per chiudermi dalle sofferenze del mondo e della vita di adolescente è ancora il disegnare, sul mio tavolo in legno laccato bianco, a inventare storie, a scrivere, a sognare, sognare e sognare ancora che un giorno sarò brava come GIANNI De Luca.
Ma GIORGIO Cavazzano è lì.
Cavazzano mi guarda e mi dice di non dimenticarlo. Non è come sembra, non è solo Topolino o Paperino: mi rassicura, mi dice che ci sta, il crescere, che ci sta doversi staccare da ciò che sembra apparentemente infantile. Ci sono momenti personali, ci sono cose che si abbandonano e poi si riprendono.
Cavazzano mi dice: tornerò, ma intanto, non dimenticarmi, accetto anche di stare in un angolino, ma non chiuderlo a chiave quell’angolino, quel cassetto lascialo socchiuso. E mi dà un buffetto sulla guancia, uno di quelli che ti lascia il nonno, uno di quelli di cui senti il profumo, ne vedi i colori di un’epoca che non esiste più, un buffetto di cui sento ancora il calore.

Sono a Milano.
Cavazzano aveva ragione. Lui ritorna, e come ritorna.
Milano per me assomiglia a quel paradiso che scoprì mia sorella quando il coprifuoco della cioccolata fu sparito: a me accadde con i fumetti. Mi nutrii e studiai, lessi, mi tuffai completamente ovunque, in tutti i generi, dal giapponese all’americano, da Julia a Dylan Dog, come una sanguisuga, assorbendo tutto, dagli stili alle sceneggiature, potendone poi parlare con ragazzi a cui piacevano le stesse mie cose: non ero più sola, c’erano persone reali che sapevano chi fosse De Luca e Tacconi, e Cavazzano.
Per noi i disegnatori erano come i calciatori a cui chiedere autografi e carpire qualche segreto del mestiere che sognavamo di fare.
Erano gli anni nei quali inseguivamo alle fiere Sergio Toppi e Moebius e ci scioglievamo davanti a un banco nel quale Mattotti, Igort e Manara disegnavano vicini. Era il paradiso.
Michele mi fa un giorno: lo hai mai letto Altai & Jonson?
Michele un giorno a uno dei corsi ci avverte: avete visto che in edicola è uscito per la Bonelli un albo DISEGNATO DA CAVAZZANO E SCRITTO DA BONVI?
Ne usciranno due: La città e Maledetta galassia!.
Cavazzano torna prepotentemente: hai visto? mi dice.
E io, qualche centimetro più in altezza, lo osservo e penso a come un autore possa costruire una carriera con un segno e uno stile ben preciso.
Le influenze in quegli anni sono tante, tantissime, ma io voglio avere un mio segno e stile inconfondibile; i lettori guarderanno i miei disegni e diranno: Ah! Questa è Mabel Morri!
Anche Smalto & Jonny è un’altra scoperta di quegli anni: un’altra coppia di simil investigatori, per cui lo slogan avventura, avventura, avventura sembrava essere LO slogan del fumetto che stavo conoscendo. Il che, intendiamoci, è una palestra notevole, da lettrice e da studiosa.
Cavazzano paternamente mentre Bonvi dice ciao ciao a tutti, lasciando questa vita terrena qualche anno prima, mi strizza l’occhio e mi dice: sono tornato come ti avevo promesso.
Non mi abbandonerà mai più.
Nei momenti di crisi, i fumetti e gli autori a cui mi aggrappo ancora per non soccombere iniziano a essere diversi, ma Cavazzano e De Luca sono una costante. È come un fantacalcio con tutti i calciatori della storia: van Basten e Maradona sono sempre nella mia squadra.

Ho 41 anni.
Crescere è stato difficilissimo.
Capelli bianchi che spuntano nella ricrescita, un’ernia che sembrerebbe stia tenendo a bada, come lavoro disegno fumetti e sono bravina, non un fenomeno ma qualcosina ho costruito.
L’Editoriale Cosmo annuncia la ristampa delle storie di Altai & Jonson, scritto da Tiziano Sclavi e disegnato da Giorgio Cavazzano, che nel frattempo ha soffiato le candeline dei 50 anni di carriera. Gli hanno dedicato mostre ed eventi, riconoscendogli tutto, per una volta, celebrandolo.
Ho un po’ di polvere sulle spalle e ho imparato che le attese possono essere anche meno da batticuore. Ma come ho aspettato, atteso, gustato, centellinando la lettura, queste edizioni di Altai & Jonson è qualcosa di atavico che ritorna sù.
Da adulta ci trovo dei significati che anche a vent’anni facevo fatica a cogliere.
Oggi ho abbastanza codici d’accesso per comprendere molto, se non tutto.
Al Comicon di Napoli i ragazzi di Manicomix mi regalano il primo numero della Cosmo: mi sciolgo dall’emozione. A fianco ho uno youtuber che mi guarda mentre sono rapita da quel fumetto così “vecchio”. Gli mostro che è Altai & Jonson, gli dico: lo vedi questo tratteggio? ne senti il polso che spinge sul pennino, la vibrazione del tocco leggero delle dita che stringono la cannuccia? la senti la carta su cui corre quella china? lo vedi lo sguardo di Cavazzano che soppesa la vignetta appena fatta e decide che in quell’angolo lì serve il pennello? Gli dico ancora: la vedi la struttura della tavola? lo senti l’odore della china? lo senti lo stock del tappo svitato della boccetta? vedi e senti quello che vedo e sento io? Fai recensioni video dei fumetti, lo devi vedere!
No, non lo vede. Al contrario, vedo pesciolini che saltano nei suoi occhi. Non ha capito una singola parola di quello a cui io mi sto riferendo.
Sorrido, amaramente.
Mi sento vecchia e mi sento… fortunata. Fortunatissima, a esserci stata, ad avere letto fumetti che oggi si guardano come capolavori nel tempo e classici e io ero lì, a godermeli, inconsapevole della fortuna che mi stava capitando nello stesso istante in cui lo stavo facendo. Fortunatissima di essere cresciuta in anni da un lato terribili e dall’altro, per noi ragazzini, dove il fumetto era ovunque, conservatore magari, buonista magari, ma c’era: nelle pubblicità, in televisione, nelle riviste, tutto era fumetto e i suoi personaggi spesso utilizzati come veicolo di promozione unico e persuasivo.
E mi sento di far parte di un mondo, quello dei fumetti, oggi, lontanissimo anni luce da quello letto da bambina, nelle intenzioni, molto poco conservatore e buonista, e nel disegno. E non sono più l’esordiente, ma una sopravvissuta, che c’è già da vent’anni e che può insegnare qualcosa.
Cavazzano mi stringe la mano, appena finisco di leggere l’ultima storia di Altai & Jonson. Mi sorride e fa una linea con il pennello che racchiude tutto. Mi ha lasciato ciò che doveva, mi ha insegnato tutto quello che poteva. Mi ha lasciato una Storia da tramandare.
Sì, i miei fumetti passeranno ai miei nipoti. Cavazzano sarà tramandato tra altre piccole manine che spero possano avere lo stesso sguardo che avevo io.
Mi fa un inchino e se ne va.
E io piango.

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