I miei Pirenei (e Fabio Aru in maglia gialla al Tour de France 2017)

Mancano 9 chilometri al traguardo della 12ma tappa del Tour de France 2017, salite e discese continue sui Pirenei da Pau a Peyragudes. Le stesse montagne che ho travalicato nel Cammino di Santiago 2015, le stesse montagne che mi hanno ricordato quei primi due giorni di avventura, le stesse montagne il cui paesaggio mi ha riportato lì per qualche istante in questo afoso pomeriggio di metà luglio. Mentre Fabio Aru conquista la sua prima maglia gialla – È  MAGLIA GIALLA!!! – al Tour de France.

Nairo Quintana, il colombiano della Movistar, decelera, non riesce a tenere il ritmo e si stacca dal gruppo dei migliori, fino a perderlo.
È la prima vera notizia di questo Tour de France 2017, cadute rovinose a parte (da Richie Porte a Dario Cataldo, finiti in ospedale, insieme a Marc Cavendish “fatto fuori” da Peter Sagan poi squalificato) e una strepitosa e incontenibile forza nelle volate di Marcel Kittel, teutonico della Quick-Step Floors.
Chris Froome della Sky è maglia gialla e Fabio Aru è stato maglia a pois dopo aver vinto la 5a tappa in salita, in solitaria, a La Planche de Belles Filles. Il sardo gareggia con la bellissima maglia verde, bianco e rossa di Campione Italiano, ben diversa da quella indossata da Vincenzo Nibali nel 2015, nella quale predominava il celeste dell’Astana e le tre righe verticali dell’Italia sul petto.
Gli ultimi quattrocento metri della 12ma tappa, da Pau a Peyragudes, sono da batticuore: riportano alla memoria scalate di grandi campioni che ancora si piange. E poi Aru scatta, Froome ha una pedalata macchinosa, si pianta e Romain Bardet segue Aru fino a raggiungerlo e a superarlo. Aru recupera i 18 secondi che lo separavano dall’inglese in classifica, come le sue gambe sulle pedalate, una dietro l’altra, respiri lunghissimi che non si riesce a finire. È Bardet che alza il braccio e festeggia, Aru arriva, Froome no, è indietro, non arriva ancora, si spera, si inizia a sperare che la maglia gialla vada sulle spalle del sardo, frazioni di tempo interminabili nelle quali se ci fosse una nuova misurazione dei secondi, eterni, si potrebbe usare, poi Froome taglia il traguardo, è ufficiale, l’inglese perde 21 secondi in trecento metri, Aru è maglia gialla.
Gli occhi del ragazzo sono luminosi, commossi, il volto steso in un sorriso che, se potesse, urlerebbe di gioia; sembra contenuto, ma dentro esplode, si vede che sta esplodendo: ed è tutto meritatissimo.
Il Processo alla Tappa celebra con ospite Felice Gimondi il sardo, Alessandra De Stefano sottolinea la curiosità nell’avere in studio la bicicletta di Marco Pantani al Giro del 1998, quella bella, azzurra e gialla e racconta le difficoltà di Aru, la sua determinazione nel voler intraprendere la carriera ciclistica in una terra ostica e ostile come la Sardegna, priva di una storia ciclista nella quale valga la pena investire. È un tributo continuo.
Fabio Aru è ancora lì, sul palco a sventolare il pupazzo e i fiori, vestito di giallo, e intorno le vellutate montagne dei Pirenei, montagne che sembrano feltro, in un colore che negli acquarelli Lukas è il numero 1153 dal nome di “ossido cromo verde opaco”.
E io l’ho tifato, urlando, emozionandomi, contenta del suo essere campione e di ciò che un giorno racconteremo, di esserci stati, di aver visto questo ragazzo contenere una gioia irrefrenabile.

La partenza da Pau è sotto un cielo greve. Piove.
Continua a piovere per almeno i primi 100 chilometri dei 200 e passa del cosiddetto tappone di giornalistica definizione.
La vedo su EuroSport, poi appena la Rai prende il segnale internazionale mi collego sul digitale terrestre, perché sono bravi a EuroSport, ma il ciclismo è Rai, da Adriano De Zan ad Alessandra De Stefano, e Pancaldi & Martinello, e gli altri, tutti bravissimi, fino al c.t. della Nazionale – un gregario di quelli tosti, di quelli che correvano nella prestigiosa Carrera di metà anni ’80 con Claudio Chiappucci, Roberto Visentini e Stephen Roche e che appena è diventato allenatore, lo fu di Pantani -, Davide Cassani.
I Pirenei appaiono nelle panoramiche dall’elicottero, castelli e paesi arroccati, in quella linea parallela di confine così vicina alla Spagna, in quel collante con i Paesi Baschi, la Navarra, in quella forbice verde dei Parchi Nazionali dei Pirenei, che corrono e si rincorrono, a cavallo di Francia e Spagna, continuamente.
Gente che si sente a metà quella, in quella frangia di Pirenei, in montagna: la puzza sotto il naso dei francesi e la ruvidezza degli spagnoli, come gli andorrani, stessa sorte, tra altezze mozzafiato e vallate separate dal resto del mondo.
Appaiono allo stesso modo dall’alto, i Pirenei, separati dal resto del mondo, tranne a luglio, quando vi ci passa il Tour de France.

Ma io ricordo lo stesso verde, lo stesso 1153 della Lukas, e lo stesso grigio dell’asfalto bagnato, che diventa ancora più grigio con la pioggia.
Pau da Saint-Jean-Pied-de-Port dista appena 1 ora e 32 minuti di auto – su Maps una serie di puntini che disegnano un arco, una virgola, quasi una linea retta -, 19 ore e 3 minuti a piedi, invece, 90 chilometri che abusando del proprio corpo si fanno in due giorni di cammino. Li ho conosciuti, due tizi che avevano il tempo contato, un aereo da prendere e per terminare il Cammino si sono sparati 45 chilometri al giorno.
E Saint-Jean-Pied-de-Port da Roncisvalle, in perpendicolare rispetto a Pau, 25 chilometri, così dicono alcune guide, altre arrotondano a 27. Ma quello che comunque molti pellegrini hanno imparato a fare, è fermarsi a 7 chilometri appena (più o meno) dalla cittadina francese, all’unico rifugio/albergue di Orrison, uno chalet in legno e pietra lungo la strada asfaltata. Quello che non dicono mai è che per arrivarci, quella decina di chilometri sono di una pendenza devastante, una serpentina asfaltata che si arrampica a zig zag sulla montagna, un continuo strappo delle ginocchia e della schiena che sorreggono anche lo zaino di 10 chili. Ho sentito di un ragazzo del Veneto che in quella tappa, forzando, si è spaccato i tendini, a Roncisvalle nemmeno ci è arrivato, lo sono venuti a prendere in ambulanza lungo il sentiero, e poi si è convinto ad andare al sud, al mare a godersi il sole di fine aprile, nel mese che gli occorreva fino a fine maggio, avendo già prenotato il volo di rientro. La sua storia è stata tramandata fino ad Azofra, paesino dopo Logroño, tra Nájera e Santo Domingo de la Calzada, risorto grazie all’economia del Cammino e ora nuovamente abitato dopo l’abbandono degli anni precedenti. Non ne ho saputo più nulla del ragazzo.
L’aria è totalmente ferma; anche aprendo le finestre nel vano tentativo di far respirare la casa non si muove una foglia. È proprio la classica torrida giornata estiva di luglio, quelle nelle quali si sta bene solo in spiaggia, in acqua, grondanti a rinfrescarsi sotto una doccia ghiacciata, di solito quelle della spiaggia libera, e con un’altrettanto ghiacciata birra.
Forse.
Forse perché ci sono giornate caldissime che si sta male anche in spiaggia. Capita.
L’aria è comunque ferma. Solo il ventilatore provoca un po’ di movimento, tra le tende, tra i fogli da disegno, tra le pagine della moleskine – no, è un agenda di Aruba con la scritta Cloud ma con la stessa pessima qualità della carta della moleskine.

Però quel verde ce l’ho ancora negli occhi.
Quella spianata che a un certo punto si apre, impossibile perdersi, puntini colorati seguono in fila indiana l’unica striscia grigia.
A Orrison è umido. Cala la nebbia e la doccia manda l’acqua calda solo per cinque minuti, con il gettone che costa 2 euro. Ma la vista al mattino è di quelle che rubano il sorriso e regalano la calma.
La vallata che scavalca i Pirenei lungo il Cammino è spesso oltrepassata da nubi minacciose, piove spesso, ed è così ampia che non si riesce a inquadrarla interamente con lo smartphone, nemmeno usando la panoramica.
C’è lo scoppiettio della ghiaia, sotto le Salomon da trekking. C’è un tempo che sembra infinito e molteplici pensieri in quel contesto che sembra non finire mai. Pensare che è una nuova avventura, pensare le infinite possibilità della vita, pensare ai progetti e i sogni da realizzare, pensare di potercela fare, pensare che non sono ancora arrivate le vesciche, pensare che c’è un bel fresco, pensare alle persone che ti amano, una soprattutto, lontane, a casa o quello che si chiama casa, pensare all’emozione dell’essere lì e a immaginare quello che accadrà, pensare di essere una scafata che già conosce le “regole” del cammino e non sapere che è sempre una volta diversa, pensare che lo zaino non pesa ancora tanto, pensare che sono brasiliani i due nuovi compagni di viaggio, pensare che in quel tratto hanno girato la scena di The Way nella quale il personaggio di Emilio Estevez perde la vita e avere un piccolo brivido ma anche domandarsi come possa avere fatto, pensare, pensare, pensare.
E sembra di essere ancora lì, in quel verde, tra quel velluto. È talmente vasto e la poesia arriva troppo presto nella grande avventura che è il Cammino di Santiago prima di Burgos che non lo si impiega come si dovrebbe. Invece di gustarselo, invece di imprigionarlo nella mente e negli occhi e nel cuore, si pensa solo ad arrivare a Roncisvalle, a mettersi psicologicamente nella condizione dell’arrivo, si pensa solo a spuntare Roncisvalle dalla cartina, la frazione con il cartello stradale con il chilometraggio per Santiago, quei 790 chilometri che appaiono in tutte le foto dei pellegrini.
Nel mio primo romanzo a fumetti, Io e te su Naboo, c’è Manuela che fa visita a Emiliano. Non si vedono da tanto tempo, sono stati insieme in Tunisia a “chiudere un cerchio”, a fare quella vacanza che avevano organizzato prima che Ico e Diana morissero nell’incidente. Manuela entra a casa di Emi e si slaccia la cerniera del giubbotto impermeabile con il cappuccio, mentre si volta e mi sembra di ricordare che gli dica qualcosa sul taglio di capelli. Il cellulare con cui Manuela ha chiamato Emi era all’epoca nel 2006 – era uscito nel 2005 – un nuovo modello della Motorola, il Pebl U6, quello che assomigliava a un sasso e nella pubblicità l’attore lo faceva rimbalzare sull’acqua. Ecco, quel gesto lì, non il rimbalzare sull’acqua il cellulare che assomiglia a un sasso, ma lo slacciarsi la cerniera: le mani come si chiudono, il pollice che si contrae sull’indice piegato; ho cercato quel gesto, ricordo che disegnai tentando di rendere quel movimento. Ebbene, nel mio cammino di Santiago indosso un giubbotto della Quechua verde intenso; l’ho genialmente e scetticamente comprato dopo il primo Cammino, quello del 2010, non sapendo che ne avrei rifatto un altro. Pensavo che con quello che costa il Cammino facevo prima a godermi Madrid o Barcellona, o anche Valencia o Siviglia, tanto costa uguale. Poi sorprendentemente l’ho usato. Ora appare in molte mie foto, quel giubbotto verde intenso. Mi ci sono affezionata, e non lo avrei mai creduto possibile.

Una foresta con alberi dal fusto lungo ingobbiti, sembrano tanti soldati nel momento della fucilata dietro la schiena, mentre cadono sulle ginocchia, con lo sguardo al cielo. E poi tra le fronde, un po’ di sole a indicare il sentiero. Sulla sinistra una lastra, un pezzo di pietra intagliato, una targa, a sottolineare il chilometraggio fino alla Galizia.
E poi ancora, un’altra vallata ampia, finalmente il confine con la Navarra, quindi la Spagna, in un’altra lastra di pietra intagliata, inaspettata dopo sentieri e gruppi di alberi che si intervallano; altre montagne che si aprono e sì, qui i Pirenei tolgono il fiato, qui i Pirenei si mostrano nella loro vasta bellezza di verde (e neve) e cielo terso, qui i Pirenei sorridono e per la prima volta si capisce che cosa si sta realizzando.
Per la prima volta, un giallo che ritorna, quello della freccia classica del Cammino insieme al simbolo europeo, le due strisce bianca e rossa, un giallo come quello conquistato da Fabio Aru della sua maglia da primato al Tour de France con salite quasi della stessa pendenza, quasi con lo stesso sorriso al traguardo. E quasi anche quest’aria ferma sembra quella frizzante dei Pirenei.

Orrison, il panorama la sera e il rifugio/albergue.

La prima metà dei Pirenei che si affrontano, il cielo variabile e, se si guarda bene la foto, quelli che sembrano i pali per l’altezza della neve sono in realtà pellegrini. Ora potete capirne la vastità.

Gli alberi soldato morti per la patria, io che mi disseto e la targa con ancora troppi chilometri da percorrere.

Io e la Navarra, e altri illimitati Pirenei all’orizzonte.

Roncisvalle e il cartello stradale di ogni foto di qualunque pellegrino.

La bicicletta di Marco Pantani nello studio Rai de “Il Processo alla tappa” fotografata da Alessandra De Stefano e tratta dal suo profilo Twitter.

Fabio Aru con la bellissima maglia di Campione Italiano vincente a La Planche de Belles Filles e, sotto, commosso, in maglia gialla in questo Tour de France 2017 (foto tratte da Facebook e Internet)

Fine

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