un interesse e una curiosità sempre presenti, un amore sopito, duraturo, e poi finalmente esploso per “julia” della bonelli

Lentamente.
Molto lentamente.
Come un risveglio, quando ci si alza dal letto intorpiditi, agognando un bel caffè. Che non basterà, e allora via con una seconda moka. Poi, sì, forse i pensieri iniziano ad avere un filo logico; la nebbia del sonno si dirada e riaffiora il programma del giorno, una consegna da terminare, quella scena del libro nuovo da risolvere, una bozza del prossimo post sul blog in quell’oretta ritagliata prima di cena.
Lentamente.
La prima sigaretta, alla finestra dello studio, unico luogo adibito a questo vizio.
Il campo di ulivi di fronte, la vallata sommersa nella foschia, e laggiù, sfocati, i Sibillini. Quei Sibillini.
C’era un tempo, in questa stessa vita, che la notte era il ristoro; mi addormentavo pensando sempre ai fumetti, alle scene, ai miei personaggi. Oggi, dopo i terremoti, la notte fa paura, ci si addormenta per sfinimento. Gli incubi ci sono sempre, ma i sogni, quelle scene, quelle soluzioni faticano a palesarsi e vengono delegate alle ore di veglia.
C’era un tempo in cui il terremoto era qualcosa che accadeva lontano, come la mafia.

Eppure la terra tremava già allora, continuava a farlo soprattutto in quel 1998, solo che Norcia era appunto laggiù, lontano. O almeno così sembrava che lo fosse.
Ma in quel tempo, non avevo piena coscienza della realtà che avevo intorno. O almeno, ne avevo solo per ciò che suscitava il mio interesse, che toccava i miei sogni, e cose come le calamità e persino la politica erano scenari privi della mia attenzione. Come molti, che quando hanno vent’anni cercano di capire se stessi, chi sono e quale futuro desiderano, oltre a tutto il resto – l’autostima, l’amore, la cultura.
Ancora lentamente.
Come se quel presente, nel momento stesso in cui si viveva, non avrebbe mai potuto trasformarsi in passato. Succede sempre così, non ci si rende mai conto del momento che si vive se non quando lo si misura con il tempo trascorso, quando ci si volta a guardarlo, cautamente, quasi vergognandosi.
Ancora più lentamente il fumo della sigaretta si disperde nell’aria fredda della mattina, nelle volute del tabacco che brucia e si confondono con la foschia nella vallata.
Tutto sfuma.
Chiudo gli occhi.
Provo a respirarne l’aria, provo a ricordarmi com’era.
Mi guardo intorno.
Silvio Berlusconi non è più solo il presidente del Milan ma anche il presidente di molti italiani da ormai quattro anni, mentre Bill Clinton dall’altra parte dell’oceano viene – ancora – accusato di molestie sessuali dalla giornalista Paula Jones, appena tre anni dopo la faccenda Monica Lewinsky.
Alfredo Ormando si dà fuoco in Piazza San Pietro a Roma per protestare contro l’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli omosessuali, gesto che la Chiesa – ovviamente – tenta di far passare sviando il vero motivo. Alfredo muore dieci giorni dopo di atroci sofferenze per le bruciature causatosi.
A Dubai invece hanno altre preoccupazioni, a parte il petrolio e la violazione dei diritti umani, e sperimentano l’inseminazione artificiale facendo nascere il primo Cama, un ibrido cioè prodotto dall’accoppiamento di un maschio di cammello e una femmina di lama. Aberrante.
Raimondo Vianello invece presenta il Festival di Sanremo accompagnato da Veronica Pivetti ed Eva Herzigova, il cui Raiiimooondooo detto come una donnina dell’est prima dell’avvento delle badanti, diventa un tormentone. A quel Festival partecipano come ospiti stranieri Madonna con Frozen, le All Saint e i Backstreet Boys, Ricky Martin con La copa de la vida  – presentando dunque la canzone ufficiale dei mondiali di Francia di quell’estate -, e Celine Dion – che continua a cantare con sempre appassionato trasporto My heart will go on -, mentre in gara Niccolò Fabi ci regala una perla come Lasciarsi un giorno a Roma.
Programmi come Total Request Live creano code e pubblico in Piazza Duomo a Milano; quell’orda di ragazzine e di ragazzini viene definita la MTV generation, e quelli che in un prossimo futuro verrano chiamati bimbiminkia hanno un loro canale gggiovane sul quale passano video dei loro idoli. La televisione non è ancora quella cosa che puoi riguardare on demand o in streaming, è ancora quella che o guardi in diretta un programma, oppure lo registri su videocassetta, o te lo fai raccontare.
A TRL vengono ospitate anche le Spice Girls che sono all’apice del loro successo ed è appena uscito il loro secondo album Spice Up Your Life, il cui primo omonimo singolo viene passato ininterrottamente sia in radio sia, appunto, sulla stessa MTV. Il loro concerto a Milano ha bisogno di altre due date per reggere la richiesta del pubblico. Io le vidi dal vivo lunedì 9 marzo, la seconda data disponibile, facendo le corse mesi prima a una Virgin in Piazza Duomo assalita dai fan per l’acquisto dei biglietti. Il mio biglietto testimonia che fu il 234mo strappato.
Ma il 1998 è anche l’anno  – che, a riguardarlo lustri dopo, fa ancora commuovere (ma all’epoca non lo potevamo sapere e io di certo non ero, come ora, appassionata di ciclismo), di Marco Pantani. Il Pirata di Cesenatico vince Giro d’Italia e Tour de France, lasciando nella memoria collettiva sgroppate e salite che ne hanno fatto la Storia sua e di questo sport, e un po’ di tutti gli italiani che ancora oggi lo compiangono. Il suo mito diventerà indelebile nel tempo e a Cesenatico ancora oggi, naturalmente, se ne vedono gli omaggi. Cesenatico per altro in quell’estate fa il botto, e diventa meta turistica di primo piano, battendo Rimini nelle classifiche.
Ma è anche l’anno dei Mondiali di calcio in Francia. Il campionato italiano è il primo al mondo e i campioni sono tutti in Italia, a giocare nelle cosiddette Sette Sorelle (Juventus, Milan, Inter, Parma, Lazio, Roma e Fiorentina) che dominano l’Europa. Gioca ancora Zinedine Zidane, Ronaldo è l’unico, inimitabile, Fenomeno, Del Piero è un ragazzino di appena 23 anni e soprattutto gioca ancora Roberto Baggio.
E’ l’estate in cui il commissario tecnico è Cesare Maldini e allena suo figlio Paolo, capitano di quella nazionale e di quell’indimenticabile Milan, ma è anche l’estate del dualismo tra Del Piero e Baggio, il primo convocato dopo un infortunio e voluto dal popolo, il secondo dopo una stagione straordinaria per cui lasciarlo a casa era blasfemia.
Fu proprio Baggio a sfiorare il palo con un pallonetto che uscì di niente alle spalle dell’insopportabile Barthez, ma fu DI Biagio a sparare alto nei rigori che qualificarono la Francia. Sì, quella Francia del già citato Zidane, ma anche di Lilian Thuram, di Didier Deschamps, di Marcel Desailly, di Lauren Blanc, di Youri Djorkaeff, di Robert Pires, di Stephane Guivarc’h, di Patrick Viera, di un giovanissimo Thierry Henry e di un altrettanto giovanissimo David Trezeguet, di Bixente Lizarazu, di Emmanuelle Petit, di Christophe Dugarry, di Christian Karembeu, di Vincent Candela, quella Francia che vincerà sotto gli occhi di Michel Platini il primo titolo mondiale.
Quella Francia definita interrazziale, la prima che concilia integrazione e talento, che (e non potevamo saperlo) verrà ricordata come esempio dopo le stragi terroristiche, chiedendosi come fosse possibile che proprio da quella Francia lì sia nato in realtà il fallimento di quell’allora successo di integrazione, sfociato negli attacchi insofferenti di Parigi del 2015.
Quella Francia che fa anche una fatica pazzesca a vincere in semifinale con forse la Croazia più forte di tutti i tempi dopo la guerra silenziosa dei Balcani, quella Croazia che rinasce dalla guerra portandosi con sé la rabbia di un paese diviso e di talento concentrato in giocatori che ne diventano un simbolo, storico, politico e sociale.
Quella Francia che vince contro un Brasile in cui Ronaldo giocherà dopo l’ennesima infiltrazione al ginocchio che lo porterà a rischiare la vita la notte precedente la finale, perché i segreti sportivi erano patate troppo bollenti e grosse per essere pronti ad accettarle, era troppo credere che l’amato sport fosse una bugia, un altro modo di capitalizzare denaro e fosse colluso, e Blatter, il suo scandalo e le sue malefatte erano – parevano – lontanissimi.
In tutto questo, l’Europa unita e l’Euro come moneta unica sembravano allo stesso modo lontanissimi e invece in tre date, oggi fatali, si succedevano, lasciando ignari del futuro prossimo – e ignari della propria imminente povertà – intere popolazioni: il 1 maggio a Bruxelles l’Ecofin, il Consiglio di Economia e Finanza, si riunisce per approvare la lista dei paesi dell’Euro, mentre il giorno successivo, il 2 maggio, nasce ufficialmente la moneta unica, l’Euro appunto. Infine, non paghi, il 31 dicembre venivano fissati i tassi irrevocabili di conversione di undici valute europee tra cui la nostra nostalgica Lira e, di fatto, la sua definitiva fine.
E poi si scatena la psicosi da funivia. Il 3 febbraio, nella Val di Fiemme, un aereo militare statunitense, un Grumman EA – 6B Prowler, trancia un cavo della funivia del Cermis. La cabina con dentro venti persone precipita nel vuoto, salvandosi solo il manovratore, unico superstite di quella che verrà ricordata come Strage del Cermis.
I dibattiti naturalmente divampano: perché quell’aereo stava passando da lì? Perché non ci fu nessuna autorizzazione? Perché non volò più in alto? Non potevamo certo saperlo all’epoca, come ancora oggi tanti misteri non vengono svelati, ma è possibile supporre che questi “incidenti”, involontari e inaspettati, alla Ustica insomma, creassero poi le condizioni per un incidente diplomatico che soltanto un mero baratto internazionale andava a sanare, e pace alla memoria dei morti. Oggi lo sappiamo che funziona così, le guerre stesse funzionano così, tutte immancabilmente innescate a favore della non rottura degli equilibri geopolitici dei paesi del mondo, e l’essere umano come sprovveduto spettatore di un teatro che non fa ridere nessuno e nel quale è in pericolo.
Nel frattempo, a fine marzo in un altro angolo del mondo, quello losangelino per le precisione, che ostenta qualunque forma di successo inimmaginabile e irraggiungibile, il film Titanic di James Cameron con Leonardo Dicaprio e Kate Winslet, trionfa agli Oscar. E’ Leomania ovunque, le ragazzine comprano ogni rivista su cui c’è la sua faccia e si usa ancora appendere poster alle pareti della propria cameretta, staccati da giornaletti come Cioè o Tv Sorrisi e Canzoni.
A tale proposito, le riviste andavano ancora bene o esistevano quantomeno. Non esistevano i social network, invece; internet era qualcosa di molto costoso e poco comprensibile, ci si scriveva ancora le lettere e le cartoline, e c’era un esercizio della lingua italiana che, immaginate, scrivendo così tanto si faceva fatica a scrivere hanno senza h. La musica la si ascoltava in radio oppure con i lettori CD, ma c’erano ancora le musicassette in commercio, e i film si guardavano in VHS. I blog erano ancora di là a venire e i telefoni cellulari erano ancora oggetti contundenti e pesantissimi, e che servivano solo quasi esclusivamente per costosissimi sms e per le telefonate – sempre a un prezzo talmente altro che la vendita di un rene costava meno -, cellulari i cui Nokia 5110 e il 6110 – con il giochino Snake – spopolavano tra i giovani quanto Dicaprio. Io stessa mettevo da parte le mie lire e mi avviavo all’edicola di fiducia, comprando Film Tv, Ciak e il Guerin Sportivo, e tanto, tanto altro

Ora, le edicole nel 1998 erano ancora luoghi di ritrovo, e l’edicolante quasi un barista che ascoltava ciò che gli raccontavi.
Le edicole nel 1998 erano ancora gazebo solitari in ambienti urbanisticamente sfavorevoli, tipo tra le tante a Milano – ne ricordo una sotto un cavalcavia – oppure un’altra, a Rimini – in mezzo a un giardinetto, tal Piazzale Vannoni oggi rimesso a nuovo e la cui edicola non esiste più -, che sorgevano totalmente disconnessi dall’architettura intorno. Il che non è nemmeno particolarmente vero: sempre a Rimini, negli anni ’80 ne ricordo una accanto al Dancing Las Vegas – oggi non esiste più niente, né il Dancing né l’edificio in sé, abbattuto per un’opera piuttosto discussa di Fuksas-, che altro non era che un bazar edicola/tabacchi che vendeva anche canotti, palloni Telestar /Santos/Tango e creme solari.
E nelle edicole nel 1998 l’appassionato di fumetti trovava l’eden, generi persino letterari di fumetto che oggi, anno domini 2017, si va a riscoprire, con disegnatori come Ferdinando Tacconi – tra gli altri – che si ricorda con malinconia; come i fumetti di Ade Capone (il suo Kor – one però in edicola non si trovava) o Lazarus Led, in tutto quel genere cioè di fantascienza che nella seconda metà degli anni ’90 andava tantissimo, guidato dal Nathan Never della Bonelli.
Momento fervido, per i fumetti, quello di fine anni ’90: da una parte questo tipo di fantascienza, con il 2000 e le sue domande legittime verso un secolo sconosciuto, segnato da film come Nirvana di Gabriele Salvatores o Strange days della Bigelow e all’alba del fenomeno Matrix dei fratelli Wachowski per citarne qualcuno tra i più commerciali e iconici; dall’altro un tipo di storie crude, pulp, questa era la parola riscoperta, dal film del 1994 di Tarantino, Pulp fiction, che ruppe gli equilibri di un certo tipo di cinema, e via a seguire quella moda con un filone lungo anni. Nel mezzo, le mie amatissime commedie americane che proprio in quegli anni, grazie ad autrici come Nora Ephron end altri illuminati, facevano uscire da Hollywood commedie di così alta qualità che ancora ce le ricordiamo.
All’epoca, io avevo già iniziato a disegnare fumetti, studiando a Milano e oggi come allora non riuscivo mai, ma mai, a stare sul pezzo, ovviamente, e invece di seguire le mode io seguivo la mia strada, le mie storie minimaliste, quelle del quotidiano, quelle che raccontavano anche un soffio d’aria e che si incentravano sul mondo femminile.
All’epoca, non potevo sapere che ciò che mi era venuto di pancia, vent’anni dopo, nei miei 41 anni, sarebbe diventato il mio modo di esistere nelle storie, quello che alla fine volevo raccontare davvero.

E nel 1998, trovare nei fumetti un personaggio protagonista femminile era così difficile che ce li si ricorda ancora: Sprayliz di Luca Enoch del 1992 e Legs Weaver della Bonelli, nato e apparso precedentemente in Nathan Never, la cui attenzione ha poi dato alla luce una serie omonima nel 1994. Eva Kant compagna/moglie/eccetera di Diabolik, naturalmente non vale, per ovvi motivi.
Togliendo quindi gli americani, da Wonder Woman a Elektra, e l’argentina Mafalda, negli anni ’90 in Italia eravamo ancora messi così, cioè male, a ricordare Barbarella e a guardare le donnine di Manara che, con tutto rispetto per il Maestro, non è proprio il ruolo della donna che prediligo. Certo, c’era stata anche la Valentina di Crepax, ma per quanto interessante come personaggio – per i risvolti psicanalitici e la faccenda dell’anoressia -, e come fumetto – per l’architettura della composizione e delle tavole  -, non si allontanava molto dalla donna sensuale e stereotipata a cui la società si era abituata.
Per cui, immaginate la gioia e il giubilo quando, il 1° ottobre 1998, esce il numero 1 di Julia, personaggio femminile, protagonista, donna intelligente, certo bella – ma la cui bellezza ripresa dal modello di Audrey Hepburn non ingombrante -, e con segreti e incubi ricorrenti. Solo questa descrizione sarebbe bastata per urlare all’azzardo o, passandomi il sarcasmo, alla pura avanguardia.
Perché di fatto, fino a quel momento storico, un personaggio femminile non banale, e cioè con tette e culo in evidenza, non convenzionale, autorevole e che non richiamasse alla mamma o alla nonna, o alla fidanzata seria da tradire con quella facile, non si era mai visto. Nella cinematografia sicuramente, nella letteratura indubbiamente, ma nel fumetto di strada ce n’era parecchia ancora da percorrere, essendo praticamente all’altro ieri, cioè nel 1998.
C’è da dire che negli anni la Julia creata da Giancarlo Berardi – già creatore di Alan Parker per altro – è riuscita a rimanere un personaggio femminile bello e piacevole, quello per il quale le donne non provano invidia ma la seguono quasi con amicizia.
Anzi, meno male che si è finalmente fidanzata, con Ettore, altrimenti avrebbe potuto dare l’illusione di uno di quei personaggi che, siccome funzionano, vengono messi in naftalina, per cui single a vita e dalla situazione sentimentale drammatica. Anzi, meno male che hanno inventato Ettore, ispettore italiano che si muove a Genova ma con puntate in quel di Napoli – non un Rocco Schiavone o, peggio, un Montalbano certo, ma interessante, intrigante, uno di quelli che possono portare le storie in tantissime altre direzioni -, e finalmente Julia si è fidanzata, è quasi contenta, e a te lettrice dà la sensazione che cresca con te, perché tu una famiglia in questi vent’anni te la sei fatta, incredibilmente e contro qualunque momento in cui sei stata arrabbiata con la vita, e avresti potuto chiederti: perché Julia no? Se ce l’ho fatta io, e sono nessuno, perché Julia no?
Anzi, meno male che con l’ingresso di Ettore, la serie ha preso una sterzata notevole, dando luce ad alcune delle storie più avvincenti con ambientazione italiana, cambiando prospettiva, il che fa ancora più luce – a sua volta – sul fatto che Julia si presta a essere un personaggio in crescita, a un cambiamento attuale e doveroso, necessario e molto, molto bello, potenzialmente potentissimo, rimanendo fedele a quei schemi non convenzionali di base.
E quasi silenziosamente – non se ne parla quasi mai ed è anche un po’ snobbata nei circuiti che al contrario ne dovrebbero parlare -, Julia, come serie, abita le edicole italiane – e la mia libreria – da quasi vent’anni, 19 anni per la precisione, con quell’accuratezza e quelle migliorie che, per mio personalissimo gusto, ne fanno la migliore serie italiana di fumetti in Italia. E non è una ripetizione: italiana in Italia, non foss’altro che il nostro è un paese esterofilo, sempre pronto a guardare prima quello che fanno gli altri, fuori, invece di evidenziare quel poco di buono che al contrario c’è, e ce n’è.

Ma con ordine.
Julia Kendall nasce dalla penna di Giancarlo Berardi: è una criminologa, vive a Garden City, immaginaria cittadina del New Jersey – e di tante che assomigliano a qualunque cittadina di provincia americana, Bridgeport in Connecticut ma anche Worcester in Massachusetts -, ha perso i genitori in un incidente ed è stata cresciuta insieme dalla sorella ora modella dalla nonna – nonna che le ha lasciato la casa e che ora risiede in un’ospizio di lusso di quelli americani stravisti nei film -, lavora come docente nell’Università locale e ogni tanto aiuta la polizia locale in perizie comportamentali nei casi in cui necessita la sua competenza.
Ed è qui la sorpresa: è competente! Ma soprattutto, è fallibile.
Lasciamo perdere il fatto che naturalmente Julia inizi a essere chiamata sempre dalla polizia e quindi inizi a essere parte fondamentale delle indagini; lasciamo perdere che ovviamente con il tenente Alan Webb – creato sulle fattezze di John Malkovich, attore che in quella metà degli anni ’90 era molto in voga ed era semplicemente perfetto e professionale per qualunque ruolo, un po’ come Gary Oldman -, ci sia sempre attrito in questo gioco del darci del Lei da odio – amore ma di darsi del Tu solo prima tipo di morire, e lasciamo perdere infine che sia un fumetto (per cui certi meccanismi non dico telefonati ma sono le basi per far partire il motore della serie e delle storie), perché è proprio questo il punto: è fatto bene e scritto altrettanto bene. E il personaggio di Julia finalmente, nel panorama italiano, rende giustizia al ruolo della donna perché appunto è competente, non è una che si ritrova nel mezzo delle situazioni per chissà quale motivo, ma proprio perché è giustificata la sua presenza, e poi la storia deve andare avanti ovviamente. E ripeto: è fallibile.
Fallibile perché ci sono storie che Julia non riesce a risolvere, ci si avvicina, ma non c’è chiarezza. La qual cosa la rende umana, e rende umano il contesto. E bello.
Ci sono dei cattivi, certo, come in ogni serie che si rispetti, ma non ridondanti, quasi che te ne dimentichi. Una in particolare, Myrna, una pazza praticamente ossessionata da Julia, una lesbo Mystica  – X -Men, quella blu che si trasforma in chiunque – che non si capisca come faccia ad avere tante personalità, è una bella gatta da pelare quando ricompare.
Scritto e fatto bene, dici, eppure non è scontato: è come il telaio di un’automobile, i pezzi sono al posto giusto e il motore si accende. È affidabile, ci si fida delle storie che vengono raccontate. Certo, non è una Tesla, ma se vuoi una Tesla non leggi questo fumetto ordinato, dai disegni ordinati e nel purissimo stile Bonelli, un Bonelli vecchio forse, ma dignitoso su Julia.
Da Julia non ti aspetti splash – page, non ti aspetti cambi di registro improvvisi, non ti aspetti trame tortuose e turbate. Per l’unica volta che Berardi lo ha fatto, con il numero 6, Bonelli ancora vivo lo ha richiamato all’ordine, cosa che però ha influito sul successo della serie.
Certo, ci sono personaggi ricorrenti, e certo sono modellati su regole tacite, c’è quello ligio al dovere, c’è quello che usa i mezzucci, c’è quello per cui uno direbbe stereotipato, ma è fatto bene, punto. E questi modelli sono anche semplici da indovinare: il sergente aiuto di Webb/JohnMalkovich, Big Ben Irving, si basa sull’attore John Goodman (lo ricordate ne Il Grande Lebowski? per altro ripreso anche da Crozza in uno dei suoi sketch?), caratterista alla Giuseppe Battiston per intenderci; l’amico di Julia, odiato chiaramente da Webb, Leo Baxter è ripreso da Nick Nolte; Emily, la tuttofare di casa Kendall, è chiaramente Whoopi Goldberg; un altro personaggio, Matt Bradley, tenente di un altro ufficio e che con Julia c’è un sentimento tipo provo/non provo si basa su Denzel Washington, eccetera. Persino Ettore, il fidanzato di Julia, è basato su un attore, ma non ho capito capito chi sia, anche se mi riporta alle fattezze dell’attore Michele Riondino, quello de Il giovane Montalbano che poi è quello che ha interpretato anche Mennea nell’omonima fiction di Rai Uno, ma non ne sono sicura.
Questa cosa dell’indovina i personaggi, mi ricorda quando lessi il fumetto su Chef Rubio: fu davvero divertente sottoporre gli amici all’indovinello. Ma, puntualizzo e spezzo una lancia: lo fanno tutti, nel mondo dei fumetti, inventare un personaggio e disegnarlo graficamente sulla base di attori o attrici, lo faccio anche io, quindi non è un punto a sfavore questo, intendiamoci. Ken Parker era evidentemente Robert Redford, Dylan Dog è Rupert Everett, eccetera. Non so se sia una moda italiana, però ci sta, e va bene che sia così.
La serie è scritta a forma di diario, o meglio, le didascalie dei pensieri di Julia sono tipo sotto forma di diario, come se nel mentre che si segue la storia, essa stessa venga trascritta su un diario, che esiste e che davvero Julia scrive.
E numero dopo numero, non delude mai. O quasi.
Cioè, gli errori/orrori ci sono, però anche qui: è fatto bene, e lasci passare. Però.

Ho iniziato a leggere subito Julia, dal primo numero e mi piacque molto.
Abitavo a Milano e ricordo le voci nel corridoio della sede della Scuola del Fumetto nel chiacchierare della “nuova testata della Bonelli”, ricordo le battute nelle edicole intorno alla Scuola per le quali se arrivavi dopo dovevi andare in quelle più lontane, finanche in altri quartieri.
E ricordo i signori del fumetto che vi hanno disegnato, a sfogliare quei due numeri di quegli anni che mi sono rimasti, c’è da mettersi le mani nei capelli, e quasi da piangere: Dall’Agnol, Trevisan, Toppi, gente che oggi guardiamo da lontano in un’epoca che quasi non ricordiamo più, quell’epoca in cui fare fumetto era odore di gomma cancellata, il calore della gomma cancellata sulle tavole, quella della pennellata liquida che si spegneva sul ruvido del foglio, quella del vasetto di china aperto, dei polpastrelli neri per pulire un tratto, quella tangibile della tempera bianca con cui cancellavi gli errori, quella del pennino che grattava sul foglio, sui segni a matita, quell’epoca in cui fare fumetto era un atto d’amore, quel fumetto di cui mi sono innamorata.
Un paio di traslochi mi hanno fatto perdere quei numeri che avevo comprato all’epoca, per cui oggi ho solo quelli recenti, e quello definitivo dal quale è scaturita la fedeltà dell’acquisto mensile.
Ho mai parlato del libro/fumetto definitivo? Forse sì, da qualche parte in questo blog.
Il libro/fumetto definitivo è quello che ti conquista, definitivamente, quello di cui ti fidi e che sai che non ti deluderà, quello che non lascerai mai più.
Nella mia piccola conoscenza della narrativa italiana, per esempio, compro sempre i libri di Fabio Bartolomei, di Lorenza Ghinelli, di Enrico Brizzi, perché so che qualunque sia la storia che mi racconteranno, mi porteranno da qualche parte e quei 20 euro non saranno buttati via.
Ecco: Julia è questo, per me.
Certo, come ogni amore ci sono delle flessioni, e lo ammetto – ma potremmo chiamarla Vita -, c’è stato un periodo piuttosto lungo nel quale l’avevo perso di vista, questo bel fumetto.
Poi, un’estate.
Agosto 2015. Con le amiche ce ne andiamo alla spiaggia di San Michele, al Conero. A Sirolo, prima di intraprendere la discesa attraverso la pineta che porta alla spiaggia, c’è un tabacchi/edicola. Queste nell’anconetano sono spiagge ostiche per una riminese come me abituata all’arrivare in 5 minuti ed è tutto lì; sono spiagge della serie ci si prepara prima, ci si porta il pranzo al sacco, l’ombrellone, tutto!, praticamente. E se ti manca da leggere, ciao. Per carità, giù in spiaggia, c’è chi la cura: un chiosco vagamente somigliante a un baretto, qualche tavolo e qualche sedia in plastica bianca, persino lettini e ombrelloni a pagamento sulla falsariga dei bagni del riminese, e una tipo libreria: cioè, gente che lascia cose, libri, fumetti, giornali – un Dylan Dog lo lessi così, durante la Moretti da 66 dell’aperitivo -. Ma per carattere sono una che vuole avere le sue cose, quindi prima della discesa, complice l’incubo di rimanere senza sigarette e quindi risalire per una stupidaggine – immaginate il paradiso e poi dover risalire l’inferno per una dimenticanza scema, peggio, per una sigaretta! -, guardai la sezione fumetti. I fumetti nel tabacchi/edicola prima della discesa per la spiaggia sono mostrati benissimo, su uno di quegli espositori in ferro con le rotelle sotto; tutti in fila, serie con serie, speciali vicino ai mensili, Bonelli, Cosmo e gli altri. Avevo già il romanzo che stavo leggendo in quel periodo, ma avevo voglia di “altro”, o semplicemente qualcosa di “diverso”. Comprai Dylan Dog, La mano sbagliata albo numero 348, il Guerin Sportivo e poi il mio sguardo cadde su quello Speciale.
Julia!, pensai, da quanto tempo non lo leggo? La sensazione fu come quando rivedi un amore di un tempo, o comunque qualcosa che ti è piaciuto tanto e per svariati motivi, troppo lunghi e/o dolorosi da stilare, lo hai lasciato andare, non lo rivedi da tempo, ma ti ricordo del gusto che ti dava. La sensazione fu quella di un ricordo positivo, che hai conosciuto, ma che non ricordi bene, impolverato dal tempo, dagli anni.
Non ci pensai due volte. Lo Speciale a colori numero 2, Il caso del Luna Park, scese con me in spiaggia.
E quando finii di leggerlo – immaginate: estate, caldo, un mare cristallino di fronte a voi sotto un dirupo contornato da pini e vegetazione fitta, spiaggia di sassolini bianchi e un ombrellone forse rotto e bucato ma sotto cui soffia una brezza leggera da tardo pomeriggio, quando le ombre iniziano ad allungarsi, e voi rilassati, sporchi di sale, bianchi forse per la polvere dei sassi, a godervi ogni respiro di quella giornata di vacanza -, mi dissi: ma che bello! perché avevo smesso di leggerlo?
Il definitivo.
Dopo quell’agosto, Julia divenne un acquisto fisso.
Più di un anno dopo, lo è ancora.
Il numero 221 di febbraio 2017, Nel centro della bufera, è ancora lì, che deve essere letto.
È volato a Milano, è volato negli Stati Uniti, è venuto con me nei miei ultimi viaggi. Ma è lì, che mi aspetta.
E allora, renzianamente, “Arrivo, arrivo!”

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