La lentezza del riprendere la vita dopo il Cammino di Santiago, il ritorno nel quotidiano dettato dal ricordo delle calle della Galizia.
“Non subito, ma risalendo con una certa fatica dal pozzo senza fondo dell’incoscienza, Edgardo Limentani sporse il braccio destro in direzione del comodino.”
Non subito.
Inizia così “L’airone” di Giorgio Bassani, con quel non subito che trascende tantissimi significati.
Praticamente il gesto che ho fatto io sabato e domenica, allungando il collo verso la sveglia con un occhio mezzo aperto e sfocato cercando di capire quanto avessi dormito. Lunedì ero ancora intontita, effetto che è durato quasi fino a giovedì e ancora adesso non posso dire di essermi ripresa del tutto. Non ho idea se sia fisiologico o se il ritorno da più di un mese di Cammino di Santiago (nel quale ogni giorno camminavo dai 22 ai 34 chilometri vedendo per la prima volta luoghi sconosciuti, dormendo nel sacco a pelo ogni notte in un letto diverso) abbia bisogno di un tempo quantificabile al lento riassorbimento alla vita quotidiana.
Ma avevo bisogno di leggere. Ho pensato che avrebbe potuto essere l’unica via per tornare. Così, quando, davanti alla mensola dei libri che un giorno leggerò, ho osservato le coste dei volumi, l'”Ulisse” di Joyce mi strizzava l’occhiolino e la mia onestissima risposta è stata tè f’è da bon? sono appena tornata dal cammino e ti pare che mi ributto subito in un’altra roba epocale?. c’era anche Brizzi con il suo “Il meraviglioso giuoco”, ma curiosamente il mio appetito calcistico si è destabilizzato (in realtà un sacco di cose che prima del Cammino erano interessanti, adesso non lo sono più tanto, almeno al momento, quasi per niente) e infine Bassani, l’unico e inimitabile, collega e amico che scrive in quell’italiano perduto che mi fa tanto amare questa lingua bella e di origini lontane. Bassani, il salvatore dei miei buchi temporali e ispiratore, quando mi sembra di non aver nulla da raccontare degno di considerazione, anche nel panorama che vedo oggi dal mio studio, la vallata marchigiana complice il taglio dell’olmo di fronte al campo di ulivi che ha aperto uno scenario per cui a ogni sigaretta penso che in tre giorni di Cammino potrei scavalcare le colline che vedo all’orizzonte e che è un po’ come il mio cervello: al pascolo.
Non subito, ma piano piano. È una sensazione strana in questo mondo veloce la pace che alberga ancora in me. Nessuna fretta, solo il tempo necessario, che poi è quello che devi fare camminando: ognuno ha il suo passo. E impari ad ascoltarti: quando non ce la si fa più e ci si ferma a massaggiarsi i piedi così come quando si trovano energie inimmaginabili e si fa la salita per El Cebreiro con un filo di gas.
Naturalmente pensavo che avrei lanciato le scarpe e invece sono ancora lì a camminare.
Gironzolo nelle campagne marchigiane che non hanno nulla da invidiare ai campi e alle vigne de La Rjoca, anche se tra il Crianza e la Lacrima di Morro d’Alba è una bella lotta.
Ho imparato a bucarmi le vesciche con l’ago e il filo, ho imparato ad arrotolare la carta di giornale nelle scarpe per asciugarne l’umidità, ho imparato a piegare in fretta un sacco a pelo e a chiuderlo nel suo sacchetto, ho imparato a sopportare il dolore ai piedini anche quando c’erano giorni che mi sembrava di svenire, ho imparato a usare la vaselina e le creme rinfrescanti, ho imparato a fidarmi delle salviettine intime che sono davvero molto utili, ho imparato a buttare i compeed che sono il male, ho imparato ad ascoltare lo scricchiolio dei sassi sotto le suole, ho imparato a vivere quei momenti, passo dopo passo, senza cocciutaggine o testardaggine. Dicono che il Cammino insegna ad avere pazienza; non lo so, di certo respiro.
Passerà naturalmente questa sensazione e le scorie della quotidianità avranno il sopravvento, ma sarebbe bello (e lo è) distaccarsi da ciò che prima sembrava la “vita” e adesso osservarlo esternamente.
Ho ancora i buchi nei piedini e due unghie nere e chissà quanto tempo mi ci vorrà per farli guarire del tutto. Ma non importa.
Ho ancora dei flash a occhi aperti: come la discesa dalla Cruz de Hierro, tanto bella la salita quanto bastardissima la discesa fino a El Acebo e poi Molinaseca prima di Ponferrada, tutta sassi a punta e con un’inclinazione da pista da sci senza neve. E le calle, i fiori. In Galizia non c’erano i papaveri rossi nei campi, ma le calle; crescevano selvagge, sotto i loro muri di pietra nera. Le prime che si incontrano si pensa ma che belle, poi ce ne si fa talmente l’abitudine che si passa oltre senza nemmeno fotografarle. E infatti io non ho nemmeno una foto della calle della Galizia. Ne ho viste talmente tante che quelle che ci saranno al matrimonio di mia sorella saranno persino poche. E il primo disegno che mi ritrovo a fare dal mio ritorno, da non crederci, sono proprio calle.
E poi i fiori gialli, prati e prati di fiori gialli. Nella Navarra prima e dopo Pamplona, campi sterminati di verde e giallo.
Quelli rosa, o violetto; rovi e cespugli in un turbinio di colori, tra giallo e violetto.
E quel sentiero là nel mezzo, pieno di sassi.
C’è un episodio che sancisce la fine definitiva del mio Cammino ed è l’episodio con cui ho avuto la netta sensazione che il mio sguardo era cambiato. Avete presente quando guardate un orizzonte qualsiasi ma non state guardando solo lontano, state guardando qualcosa oltre?, vi è mai capitato di respirare l’enormità di ciò che state vedendo?
Ero nella metropolitana di Madrid. Ero stata attenta agli annunci dell’AVE della Renfe prima di scendere alla stazione di Chamartin, i quali dicevano che, se si conservava il biglietto del viaggio in treno, il viaggio successivo in circuito urbano su un treno Renfe era gratuito. Così, scendo a Sol e con me avevano viaggiato due signori, marito e moglie presumibilmente, canuti e inconfutabilmente pellegrini, con i quali avevo scambiato cenni di assenso. Mi ferma lui, prima di dividerci per sempre. In inglese mi riconosce nella fiumana di gente di un ganglio della metropolitana di Madrid: difficile vedere gente con pantaloni tecnici e botas ai piedi e mochilla voluminosa tra quei corridoi. Camminando e a Santiago è normale, nelle città suona strano. Non serve presentarci; ci domandiamo da dove siamo partiti. È tutto surreale, persino quelle chiacchiere. Io rispondo dalla Francia, loro da Pamplona e ci diciamo: e adesso? Ci sono solo la freccia bianca per la piazza o per calle de Carreteras o per le altre uscite. Il vero Cammino inizia lì, in quel ganglio. Quando il Cammino è definitivamente finito e si ritorna a tutte le comodità dimenticate: cartaigienica nel bagno, televisione in camera, letti con lenzuola, wifi dappertutto. Perché camminare e seguire le frecce gialle (e i segnali bianchi e rossi in Francia, ne La Rjoca e in Navarra) è facile, talmente facile che forse è anche per questo che si preferisce rifarlo e rifarlo ancora, perché, per una volta, si sa dove andare nella vita.
Saliamo un paio di scale mobili insieme, lui vestito con una camicia a quadri e lo zaino con la conchiglia, lei con in mano i bastoncini e io con la mia camminata zoppicante. Mi dicono che si sarebbero fermati due giorni a Madrid, io solo il pomeriggio e la sera.
Ci salutiamo con un buona fortuna.
Questo è il momento: un buona fortuna e cenni di riconoscimento in un’affollata stazione della metropolitana.
Non credo scriverò mai articoli o un articolo sul mio Cammino. Ho incontrato troppe persone vere, troppa umanità con motivi così intimi e che ho avuto l’onore di conoscere che è onesto rimangano in quella parte di me che sarà sempre pellegrina. Forse ci saranno questi momenti estrapolati da un contesto così grande e profondo che difficilmente saranno comprensibili, ma importa poco. Importa per me, e questo basta.
Non sono la prima e non sarò l’ultima che da Saint Jean Pied De Port ha camminato scavalcando i Pirenei fino a Santiago e poi a Finisterre, e che ha bruciato qualcosa su quelle rocce. Ho fatto una roba grossa e ancora non me ne rendo conto.
Ma questo, lo scoprirò solo camminando ancora tra le calle della Galizia.