È uno dei dualismi più duraturi dell’esistenza umana.
Beatles o Rolling Stones?
Truffaut o Godard?
Dante o Boccaccio?
Coca-Cola o Pepsi?
Gaspare e Zuzzurro o Gigi e Andrea?
Cattivissimo me o Megamind?
Marvel o DC?
Moana o Ilona Staller?
Prada o Gucci?
Nike o Adidas?
Oasis o Blur?
Bastien Vives o Cyril Pedrosa?
Rafael Nadal o Roger Federer?
Messi o Maradona?
Spice Girls o All Saints?
Presepe o albero di natale?
Magnum o Cornetto Algida?
Fedez o Emis Killa?
Ma soprattutto: pandoro o panettone?
C’è chi li mangia entrambi, c’è chi mangia tutto tipo tutto, c’è invece e suppongo sia indubbiamente una minoranza chi come me mangia solo il pandoro.
Ci ho provato, l’ho assaggiato, ma non c’è verso. L’esito è ormai quello e non cambia più: a me il panettone fa cagare.
Chiaro che poi magari la procedura nella preparazione è anche simile, ma a me quell’uvetta e quella frutta candita non mi piacciono, mai piaciuti nelle brioches, mai piaciuti nelle merendine, mai piaciuti semplicemente.
Per altro, inizio a farmi una teoria a riguardo. tipo: chi mi conosce strabene, sa che non è una mia priorità mangiare e sa che ho gusti davvero molto difficili. E oltre a questo, che di per se è già complicato, si sta insinuando l’idea che ciò che mangiamo e che ci piace sia un riflesso di ciò che siamo nella vita. Tipo che io sono una che non ha mezze misure, o è bianco o è nero, e ciò che è misto è tipo mmh. Esiste il mezzo tono, per carità, ma per me è abbastanza incomprensibile e, anche se mi sforzo, rimane sempre lì, come il pezzettino di rucola tra i denti, rimane nel mezzo. E a me è indigesto ciò che sta nel mezzo, perché da qualche parte bisogna stare, delle idee anche radicali bisogna averle, delle scelte di quelle “mi butto dal burrone e ciao, vediamo come va”, una volta nella vita le fai, forse.
A me non piacciono i pastrocchi. E nella mia prospettiva contorta, il panettone è un pastrocchio. Troppe robe nel mezzo. Il pandoro è semplice, soffice, dolce, e color crema. Per altro ora che ne scrivo mi sta venendo una gran fame e il pandoro è uno dei pochi motivi per cui vale la pena che arrivi il Natale. Anche se ormai lo si trova nei supermercati da quasi dopo l’estate.
Pandoro la cui origine, dicono, abbia persino diverse credenze. Tipo che c’è chi sostiene che nasca intorno al ‘500 nella repubblica veneziana, periodo nel quale sulle tavole delle famiglie più prosperose e ricche venivano serviti a tavola dolci tipo di forma conica e ricoperte da foglie d’oro, dolci chiamati appunto “pan de oro”. Un’altra credenza è quello che lo vede nascere sulla base di un altro dolce, il “Nadalin”, che era sempre veronese e a forma di stella ed era tradizionale verso la fine dell’800. Poi, c’è chi crede invece che sia nato nei forni dei pasticceri degli Asburgo; rifacendosi al “Pane di Vienna”, i pasticceri della casa reale, presumibilmente annoiati, non hanno trovato di meglio che sperimentare una variante della pasta della brioche francese la quale, nella sua preparazione, deve alternare due o tre fasi dell’impasto aggiungendo più burro con il sistema della pasta sfoglia, in modo che il dolce, riposando, ottenga più volume.
Ciò che è sicuro è che è buono, è veronese e il colore giallo oro dipende dalle uova.
Il panettone invece è una di quelle cose per cui i lombardi (e specificamente i milanesi) devono andare fieri insieme al Milan, al Duomo e alla Madonnina, alla Michetta e se proprio vogliamo all’Inter. E il resto, ovviamente.
Il panettone, quello vero, deve essere basso, altrimenti è una sfacciata riproduzione e almeno, sull’origine, c’è meno confusione che sul pandoro, o quantomeno sono due le versioni (che quasi sfociano nella leggenda) più accreditate e alle quali piace credere.
La prima vede protagonista tal Messer Ughetto degli Atellani, il quale di lavoro faceva il falconiere, era innamorato di Algisa, la bella figlia del fornaio. Così, si fece assumere come garzone e per incrementare le vendite provò a mettere insieme un nuovo dolce. Si ritrovò a impastare la migliore farina del mulino, uova, burro, miele e uva sultanina. Si racconta che ne venne fuori una meraviglia e fu subito un dolce di successo, tant’è che Algisa cedette al fascino di Ughetto, si sposarono e vissero felici e contenti.
Prendile per la gola, dicevano, ma oggi tra diete e wellness anche meno.
La seconda versione narra che il cuoco di Ludovico il Moro nella preparazione di un pranzo sontuoso si dimenticò il dolce nel forno e quando se ne ricordò era quasi completamente bruciato. Il suo sguattero, un bambarel di nome Toni, che nonostante i lavori massacranti non aveva niente di meglio da fare nel tempo libero se non mescolare anche lui roba a caso di ciò che era rimasto nella dispensa, lo mostrò al cuoco disperato e gli propose di portarlo a tavola. Il cuoco acconsentì e spiò le reazioni dei commensali che, estasiati, gli chiesero il nome di quel dolce e il cuoco rispose che “l’è ‘l pan del Toni”. E da allora, quel dolce basso e candito venne chiamato il Pane di Toni, il panettone.
E da allora, pandoro e panettone, insieme ai cantuccini, al torrone, e una quantità di altri dolci, mangiarli significa Natale.
E da allora, pandoro e panettone, accidenti, ci fanno ingrassare ogni Natale.