Ferragosto nella spiaggia del Mosquito Bar a Marzocca di Senigallia, nelle Marche.
Un ombrellone della birra Zipfer triste, solo e abbandonato.
Una storia di cruda realtà.
Imbruniva.
Intorno famiglie; un padre grigliava, un altro fumava, una donna sistemava una sdraio per renderla un tavolo per le pizze da asporto che una coppia avrebbe portato di lì a poco.
Gli ombrelloni erano rimasto aperti dopo la giornata di mare.
Un Ferragosto strano, il mio; in viaggio, partendo dalla Liguria per tornare a metà pomeriggio nelle Marche. Un agosto strano e ferie ancora di più, un trasloco vicino e la mia vita chiusa e divisa in scatoloni ammassati nella sala della casa vecchia.
Come spesso era accaduto questa estate, io e Ila ci eravamo portate la cena al sacco e il vino, un Extra Dry trovato tra le scansie del reparto vino dell’Iper dell’outlet di Serravalle, in Piemonte, meta bizzarra a Ferragosto ma centro commerciale che ha dato vita (e lavoro) a una zona che probabilmente non aveva molto altro che splendidi scorci.
Ci sorprendiamo che non ci sia poi così molta gente, anzi, è quasi vuoto.
Pochissime famiglie, poche grigliate, molto vivibile e il Mosquito sempre attivo, ma tranquillo, un riciclo di persone che vanno e vengono.
Gli ombrelloni delle poche famiglie erano rimasti aperti dopo la giornata di mare.
Lui no.
Lui, l’ombrellone triste della Zipfer, era stato chiuso. E lasciato lì; nemmeno lo sforzo di stringerlo con un laccetto.
Chissà, mi chiedevo, com’era stata la giornata la mare, per curiosità, per pensare ad altro; chissà quanta gente, quanti in mare a rinfrescarsi, quante birre e quanta apparente felicità.
Intorno famiglie, risate, io e Ila a bere prosecco e guardare le stelle cadenti (e Ila continuando a usare l’app che riconosce le stelle), e lui solo e abbandonato come se in un diametro non ben precisato gli si fosse stata creata una tabula rasa tale per cui entrare nel suo raggio no, proprio no.
Mi alzo dal telo. Voglio vedere il mare. Con il bicchiere in mano vado verso l’ombrellone.
È un ombrellone blu, piccolo, con la scritta Zipfer su quattro spicchi. Non l’ho mai bevuta, la birra Zipfer. Mai trovata nei supermercati ma, soprattutto, mai stata in Austria.
Quell’ombrellone mi intenerisce.
Mi avvicino.
Gli dico “Ciao”, ma non risponde: o meglio, capisco che non mi capisce e il suo austriaco non va d’accordo con il mio italiano romagnolo.
Quando anche le famiglie se ne vanno per portare a letto i bambini, noi aspettiamo di avere gli occhietti che quasi si chiudono dal sonno per venire via dalla spiaggia.
Lui rimane lì.
Non ho più saputo se qualcuno è venuto a prenderlo, se è stato tolto dai ragazzi del bar, se è scomparso portato via da una mareggiata e abitante ora del mare – come quelle bellissime storie marinaresche alla Conrad o alla Verne che amavo tanto leggere da piccola -, non so se ha un occhio chiuso con una toppa nera, la barba e la voce austriaca biascicante dal whisky (o di birra nel suo caso) e il suo umore è nero per via di una balena, non ho saputo più nulla.
Ma so che Ferragosto lo ha passato da solo.
E ho pensato che tutto ciò fosse molto triste.
Ecco.