EXPO Milano 2015 e perché vale la pena di andarci

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Una giornata milanese all’EXPO.
La mia totale impreparazione all’EXPO, mi porta a Milano in un fine settimana di giugno. 

Una cappa di caldo così l’ho sentita spesso nella mia vita, ma l’ultimo vivido ricordo risale al mio secondo Cammino di Santiago, poche settimane fa.
Ero con gli amici brasiliani a Villacarce ai piedi di El Cebreiro e ricordo di aver definito quel caldo anomalo per la regione (erano i primi di maggio) come Milano ad agosto. Ci vado a metà giugno, ma è uguale, fa caldo uguale. Ricordo anche di essermi fermata a chiedere ai vecchietti del posto, seduti sulle sedie fuori casa in una villetta sotto l’albergue municipal, se quell’afa fosse normale in quel periodo. Mi dissero che no, quel calore scevro di respiro era assolutamente fuori stagione.
Dell’EXPO ne ho sentito parlare, come tutti, ma il mio disinteresse è pari alla mia passione sportiva per il curling.
Come entro – con I., P. e S. -, manco subito la ragazza che distribuisce la mappa.

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Appena la rimediamo, si decide di entrare nel padiglione del Giappone, che, dicono, sia tra i più belli e ambiti, e dalla coda interminabile. Ci va di super lusso per essere sabato: appena 50 minuti rispetto alle tre ore che mi avevano riportato.
I. è la più informata; ci dice l’elenco dei padiglioni che vorrebbe visitare (e nella mia ignoranza) la seguo con le altre.
L’essere così sprovveduta – perché non ho idea di come sia potuta essere qui a vivere questa cosa e l’essere senza aspettative -, mi fa sinceramente domandare (e un imperante scetticismo intanto cresce): cosa avrà ‘sto padiglione del Giappone che tutti dicono che è fotonico?
Non sono una che si entusiasma per tutto, di solito rimango abbastanza impassibile, tanto che.
Tanto che.

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La bozza dell’articolo sull’EXPO inizia così, scritto tra una coda e l’altra, fino a che ho spento l’Iphone e, o lo vivevo, o ne documentavo ogni istante riportando sensazioni che avrei potuto tralasciare. Sensazioni che tuttavia non si sono perse, al contrario, si sono fatte concrete e anche lucide.
Organizzare le idee e i ricordi di quel giorno inizia a essere difficile, specie poi parlandone con gli amici che sono ancora titubanti sull’andare o meno.
Così, ci provo a tenere un filo logico che normalmente non ho quasi mai. Considerato poi che per tutto quel sabato, da quando abbiamo varcato i tornelli alle 10 del mattino fino alle 23 quando siamo andate via, non avevo comunque capito cosa avessi visto e il suo senso, potete immaginare il mio persistente stato di inconsapevolezza. A pensarci, è questo che mi è rimasto: uno straniamento costante, una totale incapacità di comprensione.
Per altro non aiuta affatto quel poco che si trova in internet sull’argomento, perché nessuno, dico nessuno, racconta cosa ci si ritrova davanti e consigli su come sopravviverci, o meglio: l’unico articolo che avevo letto era di John Foot per Internazionale, dal titolo La mia giornata all’Expo. A Internazionale di solito credo, mi piace leggerlo ma adesso che ho visto l’EXPO con il ricordo millantante delle righe di Foot, mi domando: ma lui a quale Expo è stato per scrivere questo articolo?, perché io ho visto una roba completamente diversa. Consiglio dunque di snobbare bellamente quell’articolo, perché quella è stata la sua visione – ed è onesto che ci sia, democraticamente è onesto che ci sia -, ma ognuno avrà la sua percezione finale. Da comune mortale, mi sembra più che altro scritto per screditare un evento che, alla fine, ha dimostrato al mondo che l’Italia è capace di portare a termine qualcosa nonostante mafia e beghe burocratiche, e di rendere Milano incredibilmente funzionale e visitata come mai negli ultimi anni.
Anche oggi che mi sono informata, scoprendo faticosamente il tema dell’EXPO e le proposte dei paesi nei loro rispettivi padiglioni, la sensazione di straniamento non passa. Piuttosto, oggi, per il poco che sono riuscita a vedere in un striminzito e tirato giorno, al massimo posso dire se quel paese è stato coerente o meno con il tema e sempre per quel poco che ho visto, tocca avere un’elasticità mentale notevole e un’indulgenza pari al resettamento del cervello, perché nessun paese è stato fondamentalmente a tema. Hanno interpretato, hanno domandato lasciando a noi visitatori risposte impossibili da trovare, hanno proposto cosa farebbero loro o quello che già stanno facendo, ma niente che spiegasse davvero il sunto del tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita.
Eh?
È come quando mi invitano a partecipare a una mostra collettiva e il tema è tipo Tenda per la doccia: potete facilmente capire che ogni disegnatore interpreta il tema un po’ come gli pare.
Comunque, proviamo davvero a dare un filo logico a questo articolo dribblando lo scrivere di pancia. Ma prima facciamo un gioco, o meglio, proviamo a liberare il cervello, perché per affrontare l’EXPO bisogna farsi scivolare addosso un vallo di cose.

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Resettate la Storia: dimenticate lo spirito nobile con cui è nato l’EXPO, perché come ogni cosa, oggi, la nobiltà di intenti è molto bella e poetica ma l’effetto finale è proprio un’altra materia.
Il termine EXPO viene adottato negli anni moderni per definire un’esposizione internazionale che affronta temi di interesse mondiale, dall’alimentazione alla tecnologia alla filosofia a quant’altro, e che, nella sua durata, si trasforma in un meeting di interventi, conferenze ed esposizione a tempo determinato. È una fiera dinamica negli eventi che ospita, ogni giorno c’è qualcosa di nuovo e ogni giorno non è mai uguale all’altro per ciò che puoi vedere, padiglioni a parte.
L’EXPO è l’esposizione in chiave moderna della BIE (Bureau International des Expositions) nato in Francia e con sede a Parigi che ancora oggi esiste, ma che è tipo l’ufficio dei brevetti: ti dà l’ok per l’evento e il tema che proponi.
Alla Francia, per esempio, in una delle sue prime edizioni, la BIE o EXPO che dir si voglia lasciò in eredità la Tour Eiffel, in altri Paesi quelle cose che oggi chiamiamo monumenti e per cui facciamo code su code per visitarli. A noi rimarrà l’Albero della Vita. Sono proprio curiosa di vedere quel turista che tra il Duomo, tra il nuovo stadio del Milan, tra l’Ultima Cena di Leonardo e il resto sceglierà proprio il palo elettrico coperto di luci pirotecniche, per cui, sorvoliamo – ma scoprirò solo anni dopo, editando questo articolo nel 2019 che nel frattempo Milano è diventata impossibile, troppe cose da vedere e scegliere di vedere, sapendo consapevolmente di perdere qualcosa -.

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Dimenticate il moralismo.
Quanto è stato speso per tutto questo? Quanto inciderà su noi cittadini? Quanto dei padiglioni verrà davvero riutilizzato e quanto rimarrà lasciato arrugginire e dimenticato creando città fantasma come le strutture olimpiche di Atene 2004? È possibile seguire la rivalutazione di Torino 2006?
Non pensateci. Vi farà solo male e vi farà solo molto arrabbiare, inutilmente per altro, perché siamo comuni mortali e assolutamente impotenti di fronte all’ineluttabilità di ciò che sarà e dei governi che si alterneranno con le loro decisioni e leggi.

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Dimenticate l’ipocrisia.
Perché l’EXPO è la valle dell’ipocrisia.
In realtà ogni padiglione del paese ospitato, non ha nessuna intenzione di rispondere dello slogan Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita. Semplicemente invita a entrare e fa vedere ciò che vogliono farti vedere per non rendersi troppo incoerenti con le scelte politiche che poi vanno a essere prese nella fuori dal contesto ovattato dell’EXPO.
I cluster del Riso, del Caffè e del Cioccolato, se non vissuti con uno strato di indifferenza cementata sul cervello e su qualunque altro senso, rattristano molto, mostrando una facciata che forse è anche così – troppo lontani quei paesi per sapere davvero come sono e come vivono – ma alla quale non si crede.

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Nella zona Caffè, tra cluster di Etiopia e Repubblica Dominicana, spicca lo stand della Illy mascherando la povertà degli altri con le tazze giganti a mò di poltrone.

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In quella del Cioccolato, Lindt e Pernigotti hanno code pazzesche mentre, per esempio, quello della Costa D’Avorio presenta una pianta di cacao finta e immagini di ivoriani che armeggiano nei campi.

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La presentazione, come le tazze grandi della Illy, è anche bella, con questi cubetti di cioccolato a mo di sgabelli (quando non c’è il sole che ci batte da mezza giornata sopra perché altrimenti non è un bel piacere appoggiarci il fondoschiena) e il continuo gioco mentale che si crea tra l’oggettiva e bella percezione visiva e la cruda realtà di quello che davvero vivono questi paesi, è spiazzante. Si è abbagliati visivamente perché tutto è molto bello ma dentro di te lo senti che non sei a posto, che c’è qualcosa che ti lascia l’amaro in bocca e che riconosci non essere il cioccolato fondente. Oltre a capire finalmente cosa sono i cluster, cioè padiglioni uguali per i paesi che non possono permettersi un loro proprio spazio, la qual cosa è ancora più spiazzante: da un lato l’urlare muto dei paesi ricchi, dall’altro il volerci essere anche dai più poveri, in una globalizzazione che porta comunque a due piani differenti di esistenza, perché è la storia del mondo, quella degli sfruttati e degli sfruttatori. E non è un’EXPO che non palesa ancora e ancora queste differenze.

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Altro padiglione spiazzante è quello del Brasile. La coda è formata a causa della genialità di questa rete lunga ed enorme che fa gioire i bambini e per cui la gente piuttosto aspetta le mezzore invece che fare la pedana parallela ed entrare in tre nanosecondi. Sotto questa rete, un gran bell’esempio davvero a effetto di foresta amazzonica e vari frutti che coltivano i brasiliani viene presentato ai visitatori. Dentro, al primo piano un altro esempio di piante in questo ambiente completamente bianco e una parete lunga tutto il padiglione con immagini solari del Brasile, mentre al secondo piano (che purtroppo si percorre con velocità disarmante) non ci si accorge che ci sono pannelli sui quali proiettano le vere difficoltà del paese e che sono un campanello d’allarme, ma che tralasciano completamente la realtà: e cioè che è la PetroBras che tiene a galla il paese. Con chiaramente vantaggi e compromessi, tra cui oltre al petrolio e gli effetti devastanti anche il disboscamento della foresta amazzonica che accoglie così naturalmente all’entrata.

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Il padiglione degli Emirati Arabi Uniti invece è l’apoteosi dell’ipocrisia, sempre ricordando il poco che ho visto e il mio spiccato gusto personale. Ho persino cercato di essere il più oggettiva possibile, ma è stato intollerabile, forse anche dovuto al fatto che è stato l’ultimo padiglione della giornata, per cui ero abbastanza piena. Tecnologicamente avanzato, ogni centimetro è uno sbattere in faccia le possibilità economiche del paese. Le pareti di 12 metri che ricordano le dune del deserto sono state progettate da un’artista del calibro di Foster; mentre si fa la coda di due ore, non fanno passare dal davanti, ma da dietro e io simbolicamente l’ho interpretato tipo mostriamo la bellezza e la polvere la mettiamo sotto il tappeto. Intorno, altre dune più piccole per cui le hostess dicono continuamente di non sederti e cartelli che esplicano che quelle pareti le riutilizzeranno per costruire una nuova città nel deserto. Penso alle nostre città antiche, a quanta manutenzione e progettualità, penso a L’Aquila e alla sua ricostruzione: nella mia testa pensieri contrapposti di deserto e città che vengono su contro le macerie di un pezzo della nostra bella Italia crollato così miseramente e ancora lì, mi sento un pugile che prende pugni sia da una parte sia dall’altra. E non capisco.
Si entra e c’è una specie di esposizione come una installazione a cielo aperto; sono dei cubi, dentro i quali come una tv touch si può interagire e far partire le immagini; si propongono varie domande e spiegano cosa stanno facendo per fronteggiare e sviluppare quel problema. C’è un arabo vestito da emiro che spiega che stanno facendo degli studi su come sfruttare le proprietà dei datteri somiglia a quelli di un’università americana che sviluppò la teoria per cui è più facile venire morsi dal calciatore Suarez che da uno squalo. Seconda sensazione di sbattere in faccia le possibilità economiche: abbiamo un vallo di soldi, spendiamoli per ricerche improbabili e prive di una qualche reale utilità, tanto i soldi li abbiamo e pure tanti.
Poi c’è un cinema dove proiettano questo mini film di dieci minuti (o quindici, fa lo stesso) con protagonista Sara, una bambina viziata e schifosamente ricca, che può permettersi di abbandonare una bottiglietta d’acqua disperdendone il prezioso contenuto, mentre va con i genitori in un cantiere nel quale la nonna sta difendendo una palma e dalla quale non si vuole staccare. Per magia, la ragazzina ritorna ai tempi nei quali la nonna era giovane ed era incinta di suo padre e vive sulla propria pelle le difficoltà di allora: il vagare senza meta nel deserto, la ricerca dell’acqua e il nonno che si perde in una tempesta di sabbia nel deserto proprio per recuperarla, lei che trova un’oasi e quel poco di acqua che trova la centellina senza sprecarla, robe così fino a che non piantano tipo una gemma e da quella gemma nasce quella palma che oggi è tra alti e lussuosi grattacieli che si stagliano in un’area megagalattica e solcati da elicotteri principeschi. La ragazzetta torna al presente e capisce la sua superficialità, la nonna sorride beffardamente della serie ora hai capito nipote bamboccia quanto è importante l’acqua? e la bamboccia e il padre, sempre con uno dei loro elicotteri (!!!), fanno un regalo alla nonna sradicando la palma e tipo piantandola nel loro giardino o una roba così, salvandola.
Terza sensazione di sbandierare le possibilità a questo punto illimitate: noi abbiamo i soldi e nel padiglione ci abbiamo fatto un cinema e prodotto un film. Penso ai nostri cinema in disuso, chiusi da porte di legno e i cui neon sono spenti da un pezzo, penso a quanto costa riqualificarli per non perderli per sempre, penso anche a quanti poi diventano ecomostri dimenticati.
Verso la fine della visita, ci si ritrova in una sala buia con una ringhiera e questo effetto 3d con sempre Sara protagonista che canta una canzoncina che molti già conoscono e i bambini la cantano allegramente nella loro purezza di infanti e la ragazzina spiega che da loro piove poco, mica come in Italia che fa centimetri e centimetri di pioggia che crea le bombe d’acqua – la gente impietosita fa ooh… -, dice che loro importano l’85% di alimenti e robe che permette loro di vivere, dice che loro stanno cercando di migliorare quel poco che hanno perché, sapete aggiunge, non è facile vivere nel deserto. Quarta sensazione di insofferenza: chi se ne frega dell’acqua e di tutto il resto, siamo ricchi, e se finiamo il petrolio comunque rimaniamo ricchi, venderemo l’energia solare con tutto quel sole e quel deserto.
Abbastanza paraculo.
L’unica cosa che a mio avviso va salvata è il test all’uscita del padiglione, sempre interattivo e con una tecnologia molto bella, nel quale ci si chiede cos’è più importante se la tecnologia o l’educazione dei bambini o altro: il sondaggio dimostra che il futuro è nell’educazione delle nuove generazioni.
Ripeto, molto paraculo.

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Dimenticate il risparmio.
Costa, l’EXPO costa. Certo, l’acqua è gratuita e ci sono fontanelle che erogano acqua naturale e frizzante che poi sposteranno in città, ma i costi dei ristoranti vanno dai 25 ai 50 euro ed, escluso il biglietto d’ingresso e le spese per arrivare a Milano e la notte (consiglio gli appartamenti più che gli alberghi e comunque tocca organizzarsi e prenotare almeno mesi prima), per sopravviverci bene un budget dai 100 ai 150 euro basta. Via, io che sono di manica larga e ho le mani bucate, anche 200 per stare tranquilli, o se ci si vuole concedere un Franciacorta al loro padiglione. Spazio per altro costruito con un banco lungo e i tavolini sotto questa tettoia fatta a vigne. Come avrei fatto io che mi sono accontentata di una Lasko slovena, il che considerato il caldo, in quel momento, dopo le tre ore tra coda e visita agli EAU, ho apprezzato gustandomela sorso su sorso.

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Dimenticate di entrare velocemente nei padiglioni.
Mettetevi il cuore in pace e prendetela sportivamente. Le code ci sono, per tutto. Persino al tabacchi. Evitate un piano organizzativo e andateci senza programmi e, soprattutto, accontentatevi di quel poco che in un giorno si può vedere. Ci sono padiglioni che offrono l’orario di visita, come quello di Germania e Svizzera, altri che ti tocca stare lì per non perdere il posto. Come ci si mette il cuore in pace per la coda per il concerto degli ACDC, per gli scivoli dell’Acquafan in agosto, per Zerocalcare alla fiera di Lucca o allo stand Bonelli, vale anche per l’EXPO.

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Ebbene, detto tutto questo, dimenticando di avere un’anima e tralasciando contenuti che in realtà non ci sono, per me l’EXPO è bellissimo. 
Non avendo un metro di misura, essendo questo il primo EXPO della mia vita, se potessi ci ritornerei pure per vedere altro. Proprio per l’assenza di aspettative di cui sopra, privati di qualunque senso razionale, vale la pena vederlo. E si riesce pure a goderselo.
Intanto è a Milano, in Italia, e non è irraggiungibile. E l’arrivarci, funziona!
Infatti meritano una menzione speciale, sorprendentemente, i trasporti. Sembra incredibile a dirsi, essendo in Italia, ma funziona tutto benissimo: parcheggi seri e navette puntuali le cui fermate sono proprio davanti all’entrata, senza dover camminare chilometri e chilometri prima di arrivarci.
Architettonicamente poi è un colpo d’occhio notevole. Già da lontano, sulla navetta dal parcheggio all’entrata dell’EXPO, si aprono alcuni scorci di questa enorme città che sembra Las Vegas: è meraviglioso.
Quando si è dentro, il corridoio del Decumano e la tensostruttura che permette di camminare all’ombra e i padiglioni a destra e a sinistra, costruiti ognuno con architetture che riprendono alcuni l’essenza del paese, altri solo per colpire scenicamente, tolgono il fiato.
Quello dell’Angola per esempio.

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O quello dell’Ecuador, realizzato con questi fili di perline colorate che ne ricoprono i lati.

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Quello della Colombia, davvero folcloristico.

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Cina.

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Kuwait, con queste vele che dovrebbero rimandare a qualcosa che mi sfugge.

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Qatar, semplicemente eloquente anche senza entrarci. E infatti non l’ho fatto per mancanza di tempo. Che poi a vedere questa foto, scattata quando ero in coda in quello del Giappone, guarda che assenza di coda. Due ore dopo, alle 12, già ciao.

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Germania, con questa bellissima terrazza e scalinata in legno per arrivarci e con una spettacolare vista sull’Albero della Vita.

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Malaysia, a forma di chicci di riso, credo, o almeno io l’ho intesa così.

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Thailandia.

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Vietnam.

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Slovacchia.

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Si passeggia assolutamente rapiti dalla maestosità di alcune strutture e un’inattesa e prepotente voglia di viaggiare si insinua in te. E poi, si ha tutto a portata di mano: quando capita mai di poter scegliere un pranzo brasiliano fatto da brasiliani e la cena coreana?, o la cucina ecuadoriana o quella giapponese? Perché ogni ristorante all’interno dei padiglioni sono gestiti da gente del posto, e non italiani che si riciclano in cucine esotiche.
I padiglioni che sono riuscita a vedere sono contenta di averli visti, anche quello degli EAU nonostante tutto, perché fa parte di questo essere ovattato nel raccontare un ideale più che la realtà. Quelli che ho visto sono Giappone, Repubblica di Corea, Paesi Bassi, Brasile, Azerbaigian, EAU e i cluster del Caffè e del Cioccolato. Pochino sembrerebbe, ma di più era davvero impossibile. Ecco perché ci tornerei, anche per visitare il padiglione Italia, che quel giorno aveva due ore e mezzo di coda.

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L’unico che mi è piaciuto così tanto da farmi venire voglia di cenare in quel ristorante, è stato quello della Corea. Il padiglione per me era molto bello, e nelle brochure che c’erano lungo l’ingresso, c’era spiegato il perché e il percome della scelta di questa forma lunare del Padiglione. La struttura è ispirata al Vaso Luna (Moon Jar), una ceramica tradizionale coreana il cui nome deriva dalla sua somiglianza alla luna piena e in cui si conservano ancora oggi i cibi fermentati come i frutti di mare sotto sale (jeod-gal) o le salse e paste (i jang) e ne rispecchia il concetto coreano di bellezza naturale. L’interno anch’esso molto bello, alternava tecnologia a come loro intendono la cultura del cibo e perché mangiano ciò che mangiano. E, tutto sommato, era uno dei pochi che si inseriva nella lista dei paesi che, sembrava, si fossero scervellati per rimanere fedeli al tema dell’EXPO. Si entra e la loro prima constatazione è che: Sei ciò che Mangi. Ecco perché ci presentano la cultura dell’Hansik, quella cultura per cui si capisce quali sono gli alimenti salutari per il proprio corpo e per il futuro dell’umanità. In realtà, la prima sala, dopo che viene fatta una specie di presentazione sulle scale – sulle quali insegnano a dire buongiorno in coreano -, è una denuncia scenicamente d’impatto sul consumo eccessivo di cibo e una mezza prospettiva di paesi che stanno bene e quelli che no. Anche nel portico d’ingresso sono esposte sculture che trattano l’eccesso, poi dentro c’è la tecnologia a renderlo eclatante. Nelle sale successive, mostrano come fanno loro e come mangiano e il ristorante all’interno (e per il quale ovviamente si raggiunge anche lungo la strada tra un padiglione e l’altro), è improntato proprio sulla cultura dell’hansik e, a parte verdure su verdure, per una sera ci sta la cucina coreana.

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Totalmente privo di qualunque logica, fregandosene altamente del tema Terra e Risorse Naturali o forse la logica non l’ho colta a pieno io, è il padiglione dell’Olanda. A metà tra ciò che davvero possono proporre e l’idea di come noi italiani vediamo il paese, il padiglione viene presentato completamente all’aria aperta e il percorso si esaurisce nel passare semplicemente da un bus a un altro adibito a birreria/panineria, in uno spazio che si trovano oramai in quasi ogni sagra di paese o Finger Food. Ogni due bus si beveva e la scelta del cibo era tra hamburger, hot dog e panini vari e un salotto a cuscinoni all’ingresso facilitava le chiacchiere e lo rendeva più un luogo di aggregazione; di notte, con un gioco basico di luci sembrava di trovarsi in uno dei quartieri di Amsterdam in festa. Ancora oggi, ho il dubbio che ci fosse un codice segreto per cui uno di quei bus, in realtà, fosse un coffee shop, o forse anche tutti.

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Il padiglione Giappone, forse perché era il primo, non lo so ancora se mi è piaciuto. Sono più propensa per un ni. Forse sempre per l’incapacità di capire cosa stessi vedendo, però decisamente notevole per tecnologia e per rompere il ghiaccio. In fondo da qualcosa bisognava pur partire e l’effetto finale è molto, molto bello. C’è un aggiornamento continuo di ciò che accade fin da quando si è in coda, quanto manca per entrare, cosa vedrai appena si è vicini all’entrata e quanto tempo serve per vivere l’esperienza. La prima sala è scenicamente bella, ma è solo l’antipasto. La seconda, con questi funghi che sembrano tipo le loro piante (anche se a me sembravano penisole di sgabelli), morbide al tocco e ciondolanti, hanno dei corridoi dove fluisce la gente e intorno ci sono specchi su cui vengono proiettati effetti di terra e acqua. Poi corridoi con il loro cibo tipico esposto, una sala da pranzo concepita più come scultura che come fruizione e la terza sala, quella della torre interattiva. Fino a che non fanno entrare nel ristorante del futuro che è praticamente uno spettacolo e, appunto, a quel punto si sviene dalla fame. Ma devo spezzare una lancia per il Giappone perché, a differenza di molti, una delle grandi pecche dell’avventura di entrare in questi mondi diversi, è che non lascia nulla che te lo possa far ricordare, invece il Giappone, oltre a farti venire una fame pazzesca studiata nell’attesa e nella scoperta poco per volta, almeno alla fine propone l’assaggio dei Sake, Sake che si può anche acquistare dopo aver votato il migliore proprio giudizio per una statistica che servirà a non ricordo.

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Così come, per esempio, il Padiglione della Svizzera che non ho visto, avendo comunque il biglietto per una dato orario (ero in coda agli EAU), che P. e S. mi hanno detto che invece era interessante: nelle sue quattro torri ci si poteva portare via o sale (nella foto sotto come veniva presentato in un piacevole cubetto di carta riciclabile), o mele, o altro che non ricordo, che poi era inerente alla scelta delle risorse: se prendi una cosa, te la devi far bastare per il tuo fabbisogno personale e lasci il resto agli altri. Certo, il messaggio del preservare le risorse non deve essere arrivato chiaramente, perché hanno raccontato che la gente arrivava e si portava via casse piene di mele, fregandosene altamente degli altri, che a modo suo, forse bruscamente, rispecchia maggiormente dell’epoca in cui viviamo.

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Lo spettacolo finale dell’Albero della Vita è proprio bello, ma bello per davvero. Quasi emozionante, quasi commuovente.

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Lo spazio per i bambini: altro punto interessante. I bambini possono a modo loro viverlo penso al meglio, non essendo più bambina, quindi osservandolo quando ci sono passata vicino.
Magari ecco, l’EXPO non è proprio vivibilissimo se il cielo minaccia pioggia, o peggio, se la fa, anche se confesso che le due gocce che ha rovesciato nelle due ore di attesa per gli EAU sono state salvifiche rispetto al sole pieno di quasi tutto il giorno (e con le hostess degli EAU che distribuivano ombrelli bianchi) mentre osservavo la coda dal terrazzo dell’Azerbaigian e mi dicevo che a me sarebbe toccato di lì a poco.
Probabilmente la mia incompetenza e quel scetticismo velato mi hanno aiutato tanto a ritrovarmi di fronte una baracconata che mi sono goduta e che, oggi, con le dovute raccomandazioni, mi ha divertito. E sì, lo ripeto: all’EXPO ci ritornerei.
Dunque, considerazioni finali.
A cosa serve l’EXPO?
A niente, è solo una gran macchina mangiasoldi alla quale inconsapevolmente il cittadino contribuisce, sempre, anche se non lo va a vedere.
Perché dovrei andarci?
Perché è un’esperienza, ci si diverte e, soldini permettendo, si assaggiano cibi lontanissimi dal proprio quotidiano.
Che cosa vado a vedere e cosa mi aspetta?
A meno che non si sia preparati, anche solo nel sapere il tema dell’evento che è già qualcosa da cui partire in realtà ogni paese se ne frega di risolvere il problema, e a modo suo interpreta una improbabile soluzione, di conseguenza ogni padiglione è uno spettacolo fine a se stesso e come qualunque cosa che sia intrattenimento, è variegato, ce n’è per tutti i gusti e come in un buon parco giochi il cervello è al pascolo e ci si gode visivamente e superficialmente ciò che viene offerto.
Mi lascerà qualcosa?
Sì, qualunque cosa indefinibile sia, anche nel tempo, soprattutto nel tempo. Scrivevo così: “certo, le mele del padiglione della Svizzera scordatele, forse c’è ancora il sale.”, invece nel tempo sarà un’esperienza che si racconterà e sarà quel motore che permetterà a Milano di rinascere come città, diventando un polo europeo di prim’ordine, confermato anche da affermazioni di amiche che considerano l’EXPO il punto zero della nuova Milano che si vive oggi.
Ma davvero davvero davvero ne vale la pena?
Cosa vale davvero la pena, nella vita? L’EXPO è uno svago ed è un evento che ricorda costantemente quanto si è fortunati a essere lì a godersela, a concedersi questi lussi ogni tanto nonostante si faccia fatica ad arrivare a fine mese.
Vi lascio con l’articolo di Ilaria Mauric, prezioso nella sua essenza analitica e, soprattutto, sulla tecnologia dell’EXPO, aspetto che si tralascia molto spesso ma che invece è parte integrante se non totale nelle nostre vite, ormai abituate ad avere in mano uno smartphone e a farci quasi tutto. L’EXPO si basa sulla tecnologia e ce n’è tanta, tantissima. E Ilaria lo spiega meglio di me qui.

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  • Sefora

    Ciao Mabel!
    Complimenti per il blog, me lo sto leggendo pian pianino e mi piace tanto!
    Per quanto riguarda Expo io non ho potuto resistere..ho comprato il secondo biglietto!!
    Vedo che non hai visitato il Kazakistan..altro buon motivo, per te, per fare il bis!!
    Un abbraccio è andata presto!
    Nb. Ti porto i saluti di max del canevone ;-)

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