Tre stelle

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I nomi sono Hope Solo, Sidney Leroux, Christie Rampone, Becky Sauerbrunn, Kelley O’Hara, Whitney Engen, Shannon Boxx, Amy Rodriguez, Heather O’Reilly, Carli Llyod, Ali Krieger, Lauren Holiday, Alex Morgan, Morgan Brian, Megan Rapinoe, Lori Chalupny, Tobin Heath, Ashlyn Harris, Julie Johnston, Abby Wambach, Alyssa Naeher, Meghan Klimberger, Christine Press.
E sono la nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti, la USWNT, rispettivamente dal numero 1 di maglia al 23. Sono i 23 nomi che, sedici anni dopo quel rigore segnato da Brandi Chastain contro la Cina nel quale passò alla storia perché rimase in reggiseno sportivo, entrano a loro volta nella Storia, perché è la squadra della terza stella sulla maglia.
Gloriosamente, tre stelle: le più forti di tutte, le più amate, le più grandi.Per darvi un’idea di quanto questa terza stella fosse sperata e sentita in America, questo è il promo della FOX Sports sulla USWNT sulle prime due, con il suo profetico “Well, just wait” finale che, tra le righe, significa: Andiamo a prenderci la terza stella!. Non sono passate nemmeno 24 ore che già, per altro, in commercio su internet si trova la maglia nuova con le tre stelle.

Per darvi un’idea di quanto gli americani tifassero le ragazze, i tweet di Tom Hanks (in un selfie con la maglia della USWNT) e di Kobe Bryant nel suo #LetsGo hanno sbancato. Se andate sul profilo Twitter della U.S. Soccer WNT e scorrete i tweet c’è gente incredibile che gioisce e si complimenta per la vittoria che è, di fatto, una vittoria Americana: attori, sportivi, vice presidente degli Stati Uniti, Fergie dei Black Eyed Peace con la maglia anche lei, Tim Cook della Apple, persino Captain America con una gif, cioè una roba pazzesca. Poi, chiaro, sono americani e gli americani ci marciano sopra queste vittorie mascherate che in realtà attestano la loro superiorità e la loro potenza, costruite sul sogno con sceneggiature alla Hollywood e il video sopra ne è una prova schiacciante. E, scusate, se è poco, sono state invitate alla Casa Bianca da Obama. Altro pianeta parlando di calcio femminile.
USA – Giappone è la replica della finale di Germania 2011, vinta quattro anni fa dal Giappone ai rigori, un Giappone enormemente più forte di quello visto in questo Canada 2015. La squadra nipponica viene completamente asfaltata dalle americane che dopo quindici minuti di gioco sono già sul 4 – 0. Finisce 5 – 2 e una rete delle giapponesi è un autogol della Johnston, per altro.

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La palla è quel puntino bianco accanto al portiere e Carlo Lloyd è in basso a destra in maglia bianca

Il terzo gol di Carli Lloyd, capitano fino all’entrata in campo di Wambach, è un capolavoro di astuzia e visione di gioco magistrale: quando un giocatore segna da quasi centrocampo vedendo il portiere fuori dai pali e scavalcandolo con il lancio lungo a pallonetto, be’, questi sono i gol che ognuno di noi sogna di fare almeno una volta nella vita. Carli Llyod vincerà poi due trofei; il primo, il pallone d’oro del Mondiale per la migliore giocatrice e, il secondo, con la scarpa d’argento per la tripletta segnata (e i sei gol finali nel torneo).

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Carli Llyod. Carli Lloyd merita un approfondimento.
Quando la vedevo giocare e leggevo le aspettative della stampa americana nei confronti di questa giocatrice non elegante, molto fisica, finanche cinica nell’essenzialità dei tocchi e del modo di intendere il calcio, non capivo l’attenzione creatasi intorno a lei. Lloyd è sempre stata una da dietro le quinte, non propriamente la Star alla Alex Morgan e alla Abby Wambach, eppure in America e in nazionale ha segnato una valanga di reti, e molte vittorie sono arrivate grazie ai suoi gol. Lei stava lì, nascosta; giocava, segnava, faceva segnare, si prendeva responsabilità che pensavi dovessero prendersi le altre da copertina e quando la squadra non girava, non girava lei. È una di quelle giocatrici che se non è in vena, la squadra non va, si inceppa e i movimenti tra i reparti non funzionano.
Nata nel 1982 da Steven e Pamela, inizia a giocare a pallone alla tenera età di 5 anni in quella terra fervida di talenti che è il New Jersey. Ora, quando pensiamo al New Jersey pensiamo a tutto fuorché a una cantera di giocatori di calcio – il Pepito Giuseppe Rossi, ginocchio di cristallo della Fiorentina, proviene anche lui da laggiù-, per dire, io lo collego ineluttabilmente a Kevin Smith, al suo Clerks e ai suoi film e non posso farci nulla, questo è l’immaginario di quei luoghi che si è improntato in me, è il retaggio del cinema i dipendente degli anni ’90 con cui sono cresciuta. Carli cresce lavorando duramente, sempre; in molti, nel settore giovanile non ne vedono le potenzialità, venendo anche esclusa dall’Under 21 per semplice cecità. Continua ad allenarsi instancabilmente migliorando giorno dopo giorno e, oggi, è la regina della USWNT.
In questo Mondiale, in quasi tutte le partite, con una Morgan opaca e una Wambach che gioca apparentemente più per leggendarietà, Lloyd si prende la squadra sulle spalle e, sempre nascosta, la porta fino alla semifinale con la Germania, esplodendo in quella partita. È lei che si prende la responsabilità del rigore, è lei che fa segnare O’Hara per il 2 – 0, è anche lei che in quella gara in cui tutte, nessuna esclusa, danno il cinquecento per cento. Ed è lei che fondamentalmente regala la terza stella sulla maglia della USWNT. E quando erano in ombra lei o Morgan o Wambach, salivano in cattedra Leroux, Press, Johnston, Rapinoe, in un vortice di giocatrici la cui scelta è illimitata da parte dell’allenatrice Jill Ellis.
Ragazze che, anche io, in questo mese intero di alzatacce e nottate per seguirle, nonostante ciò che già sapevo, ho approfondito la conoscenza e quasi che le conosco meglio del mio vicino di casa. Così, ho imparato che Ali Krueger gioca con la fascia imbottita alla testa (che si toglie a metà secondo tempo) dopo l’infortunio in aprile che l’ha portata in sala operatoria, impaurita di dover chiudere anticipatamente la carriera e suo fratello, che abbraccia sugli spalti seduto accanto al compagno della Solo, è la persona più importante della sua vita; ho imparato che Shannon Boxx ha una bambina mulatta che ama alla follia; ho imparato che le figlie di Christie Rampone si chiamano Rylie e Reese e piace loro il rosa e gli accessori alle braccia e tutta quelle robine tipicamente americane; ho imparato che a Harris, il portiere di riserva, piacciono i tatuaggi grandi (il suo braccio sinistro ne è stipato); ho imparato che anche Leroux si è imposta con la madre per giocare a pallone, come una qualunque ragazza; ho imparato che ad Alex Morgan piacciono tantissimo le french e per la finale si è fatta due unghie con la bandiera americana. Ho imparato tanto e scoperto tante storie personali bellissime.

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Del Giappone, che dire? Avevo già scritto qui il mio scetticismo sulla Nazionale giapponese arrivata in finale e, di fatto, l’affondamento contro gli USA non ha che confermato questa mia sensazione. Certo, se è arrivata in finale qualche merito l’ha avuto (oltre a un calendario molto favorevole nel quale la prima davvero forte incontrata è stata proprio la USWNT), quello di spingere pochissimo in un gioco noiosissimo ma fatale in quelle pochissime ripartenze di tocchi veloci e di prima. E infatti, in finale, ogni tanto si scorgeva questa rapidità, senza contare che un altro schema classico era: dai la palla ad Amy Miyama che la butta in mezzo e telecomandata arriva sulla testa di qualunque compagna. Troppo, troppo poco contro questi Stati Uniti.
A Vancouver al Bc Place Stadium c’erano intorno ai 53.000 spettatori e oltre un milione nel mondo collegato alle televisioni, escludendo quelli nelle piazze.
Lo stadio era bellissimo dalla tv, colorato e gioioso, e i tifosi – famiglie con bambini, gente così, contenta e allegra, festante in questo clima che abbiamo perso negli stadi italiani -, erano un vero spettacolo.
Io non so quanto questi numeri possano incidere sul sensibilizzare la crescita del calcio femminile. Va ricordato che, se non influenzato continuamente dall’ingombrante paragone maschile, è uno sport diverso e molto, molto bello. Diverso nella misura in cui c’è un rispetto per l’avversario a cui non siamo più abituati; le ragazze non si rotolano continuamente a terra dopo un fallo, non si lamentano a paroloni e gesti eclatanti con l’arbitro ma accettano la decisione, giusta o sbagliata che sia; il pubblico è composto da famiglie che vanno allo stadio senza nessuna preoccupazione sulla propria incolumità. Quasi che mi sa che l’essenza del calcio, quello che amiamo, lo ritroviamo nel bistrattato calcio femminile. Certo, i pregiudizi continuano a esistere e c’è ancora, troppa, tanta discriminazione, perché il retaggio culturale ha abituato a pensarla così, ma spiegatemi perché quando si va in banca non passa nell’anticamera del cervello che la cassiera potrebbe essere lesbica. Ci sono, come ovunque, come in ogni altro ambiente. E non è comunque questo l’aspetto determinante.
L’aspetto determinante è che questo Canada 2015 è stato un Mondiale bellissimo, pubblico da grandi numeri e gioco spesso molto, molto bello con un livello davvero alto. Di strada ce n’è da percorrere, le differenze abissali tra squadre come Ecuador e USA andrebbero colmate e la preparazione degli arbitri decisamente migliorata.
Magari la FIFA potrebbe anche impegnarsi di più con un pallone alla Brazuca e magari, dico io, magari, la premiazione con una coppa adeguata e rappresentanti della FIFA più “pesanti”, alla Platini per dire.
Quando accadrà in Italia? Non lo sappiamo, ma per dirla all’americana “Well, just wait”, sperando sia altrettanto profetico.
Ma non lamentiamoci; sciocco e molto anni ’80, ma come diceva Kevin Bacon in Footloose davanti ai grandi saggi della comunità leggendo la Bibbia: “C’è un tempo per ogni proposito sotto il cielo, un tempo per ridere, un tempo per piangere, un tempo per patire e c’è un tempo per danzare. C’era un tempo per quella legge, ma ora non c’è più. Questo è il nostro tempo per danzare, questo è il nostro modo per festeggiare la vita”. Parafrasandolo più brevemente, potrei dire: “C’è un tempo per ogni proposito sotto il cielo, un tempo per ridere, un tempo per piangere e c’è un tempo per giocare a calcio. C’era un tempo per quelle discriminazioni, ma ora non c’è più. Questo è il nostro tempo per giocare a calcio.”
Ha vinto la UWSNT e la terza stella sulla maglia è proprio strameritata.
Evviva il calcio femminile.

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