professione libero

ho imparato ad amare il calcio quando vedevo quanta gioia dava a mia mamma.
la notte del 11 luglio 1982 avevo la febbre e per guarire esistevano ancora le punture.
i miei lasciarono me e mia sorella gemella dai nonni e andarono a festeggiare l’Italia di pablito, scirea, zoff, cabrini e tardelli con gli amici.

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non che io non abbia fatto la stessa cosa nel 2006.
trovo sorprendente la vita quando più o meno alla stessa età i miei festeggiavano quella trionfale nazionale di bearzot e io, anni dopo, festeggiavo quella di lippi. due nazionali diverse, due epoche diverse, stessa età dei miei quando l’Italia vinse il mondiale.
non credo, statisticamente parlando, sia molto facile che i figli vivano un’emozione così grande come la vittoria della coppa del mondo così come i genitori.
i miei nonni, qualora interessasse loro il calcio, non ne hanno vista una di nazionale vincente; belle, storiche sì, ma mai vincenti.
e vedere mia mamma che si guardava tutte le partite della juve e dell’italia, in me evidentemente ha scatenato qualcosa.
fino a quando andando contro le regole di casa juventine pronunciai nei primi anni ’80 le fatidiche parole: io tifo milan, a voi va bene?
una delle cose che uccidono un bambino è far soffrire i genitori e deluderli e io non ne sono mai stata esente, e pronunciare quelle parole aveva la stessa valenza del provocare loro una grandissima delusione.
non fu così, fortunatamente, anzi spaccai talmente il cazzo con il milan che, esasperati, con l’aiuto della zia diana che mi accompagnò, mi lanciarono a milanello a conoscere vanbasten.
ho imparato ad amare il calcio quando era un calcio diverso da questo, quando a noi bambini i genitori ci lasciavano correre nei prati e, nella da sempre italia pallonara, ci davano un pallone e ci lasciavano correre nel vento e nell’erba e se proprio si spaccavano i maroni era per le figurine e non certo per l’ultimo modello di playstation, quando nel calcio giocavano uomini modello (sul campo e nella vita privata) le cui gesta hanno portato me e tanti altri a seguire ancora il calcio, in realtà nella sola pura speranza anche solo di intravedere un barlume di quei modelli che furono.
naturalmente, speranza che alberga ancora fiocamente, anche se i nuovi giocatori sono lo specchio di ciò che è diventata l’italia e il suo calcio.
francamente, se devo lodare gente come balotelli, ibrahimovic e cr7 preferisco darmi una sassata in testa e farmi meno male cambiando sport.
ecco perché gente come franco baresi e gaetano scirea, di professione libero, rimangono nell’immaginario di ciò che era il calcio che si è amato.
ancora oggi.
quando ho imparato ad amare il calcio, il calcio era un gioco semplice.
un portiere, quattro difensori (terzino destro, terzino sinistro, libero e stopper), quattro centrocampisti (ala destra, ala sinistra, mediano e il numero dieci) e due attaccanti (uno che smarcava e si sacrificava a tornare anche a centrocampo e uno che segnava una valanga di gol).
e per me, una formazione dovrebbe essere ancora così.
poi, è arrivato il calcio moderno e il tiki-taka subissando il calcio totale, chiunque sapeva giocare in ogni ruolo e si è fatto un casino che ha fatto impazzire tutti.
per capirci: guardate david luiz. vi sembra un difensore? a me no.
due cose cono avvenute in questo 2014, nel mese di settembre a pochi giorni l’uno dall’altro: la prima, il ventennale della scomparsa di gaetano scirea e, la seconda, il ventennale dell’ultima partita giocata da franco baresi in nazionale.
poca cosa, direte voi, ma se c’è qualcosa che oggi si sta perdendo tra le tantissime cose è la memoria e la facilità con cui la Storia si sta diradando. neanche la si studia più eppure ciclicamente ricorda che la memoria di un uomo è la sua storia.
e io ve ne racconto due.

Baresi

ho ancora negli occhi quel braccio alzato, in una corsa che si fermava all’istante, la schiena di un uomo che indossava una maglia rossonera con il numero bianco 6, calzettoni e pantaloncini bianchi.
non serviva altro per riconoscere, anche dal terzo anello di san siro, la figura di franco baresi.
un uomo serio, il “piscinin”, “piccolo” dal dialetto milanese (è il 1975 quando viene preso al milan nel quale lo definiscono così per i suoi 1,64 di altezza e lo compra per un milione e mezzo di vecchie lire con la clausola: gli diamo un milione per ogni centimetro in più se va oltre il metro e settanta) nel suo 1,76 cm. e fedele.
la sua storia è la storia del milan che almeno io ho amato oltre ogni cosa.
ilario castagner è il primo allenatore, sotto la dirigenza farina, che fa prove di “zona” al milan ma senza che ce ne sia la mentalità.
in quel biennio del milan che dalla serie b ritrova la a, baresi torna campione del mondo dal mondiale del 1982 ma non gioca mai, esordendo soltanto nel dicembre dello stesso anno sostituendo proprio gaetano scirea infortunato alla caviglia.
a 22 anni diventa il capitano del milan e quella fascia bianca rimarrà al suo braccio sinistro fino al 1997.
quando silvio berlusconi acquista il milan nel 1986, la squadra in rosa ha già gente tipo mauro tassotti, filippo galli, albergo evani e pier paolo virdis e acquista roberto donadoni, giovanni galli e daniele massaro.
nel 1987 l’allenatore diventa arrigo sacchi che rivoluziona il calcio basandosi sul modello del calcio totale che dagli anni ’70 avrebbe dovuto essere stato più che mai assimilato. evidentemente non era così. poi arrivarono carlo ancelotti e gli olandesi.
e come si suol dire, il resto è Storia.
nel 1997, quando franco baresi dà l’addio al calcio, creando un vuoto e una malinconia enorme in noi tifosi, il milan ritira la maglia n.6 sul modello dell’nba.
fosse stato per me, avrei ritirato tutte le maglie dall’1 all’11 di quel milan, ripartendo dal 12 diretto.
franco baresi fu l’incarnazione del difensore moderno, stimato, rispettato, dotato di corsa, resistenza fisica e polmoni, un libero che possedeva una visione di regia arretrata che permetteva le ripartenze, duro nei tackle e veloce nei recuperi.
giocava, correva e se ne stava il più possibile zitto.
e di certo, non gli si viene ricordata la loquacità.
uomo d’altri tempi e di principi, la bufera che si creò per il primo figlio fu uno degli episodi più sgudibli che i giornalisti potessero mettere in piedi arrivando a violare un dolore privato e umano che, a mio avviso, li ha resi semplicemente dei mostri da mandare alla gogna.
le voci non si sono mai spente in realtà (un articolo del 2010, questo, ne è la prova, anche se io farei chiudere seduta stante il sito) ed è forse l’unico episodio di “gossip” che lo segnò, episodio peraltro non voluto e del quale sicuramente avrebbe preferito rimanesse un privato silenzio.
oggi, franco baresi è un signore dai capelli brizzolati che continua a rimanere semplice.
lavora ancora al milan, negli uffici, e non più sul campo.
quando si apre la sua pagina wikipedia e si guarda il paragrafo “carriera” c’è un’unica riga scritta “1977-1997 milan”,  e il cuore si gonfia commosso.
si legge solo 1977-1997 milan; riuscite a capire cosa significa?
mi ricordo che in uno dei viaggi domenicali di famiglia una tappa assoluta era il milan point in corso vittorio emanuele, nella galleria che dava sulle scale di quello che fu il primo “burghy” milanese e poi divenne mcdonald’s. in una delle ceste con le maglie per i tifosi, c’erano queste magliette grigie con i bordi rossi nel collo e nelle maniche corte. davanti, il nome e il numero del giocatore, dietro, sulla schiena, in grande la stessa cosa. non trovando quella di vanbasten, scelsi quella di baresi.
quando giocai con quella maglietta al campo dalle porte rosse arrugginite all’inizio del parco marecchia dalla parte del ponte di tiberio, credo fu l’unica particella tra ragazzini e ragazzine nella quale mi misi tipo in difesa. chiaro che quando hai 11 anni non hai la più pallida idea della tattica e i ruoli saltano che è un piacere, però ricordo che avevo il numero 6 sulle spalle, e il numero 6 del milan non poteva far altro che difendere, perché quello era il numero di baresi.
a modo mio, rispettavo quel numero e quel nome sulla maglia.
ricordo che avevo ancora i capelli lunghi e c’era il sole.
e giocavo con la maglia di baresi.
la gioia.

Gaetano Scirea

e se c’è una cosa che la juventus avrebbe dovuto fare, ecco, era quella di chiamare il loro stadio “gaetano scirea”. ma la società ha preferito denominare così la curva.
essendo milanista, non mi posso esprimere, e poi dio solo sa se inter e milan fanno il loro, di stadio, cosa diavolo combinano con i nomi. però, se c’è un giocatore che avrebbe meritato che il suo nome venisse affibbiato a uno stadio, io credo che questo nome sarebbe dovuto essere quello di gaetano scirea.
ma si sa, l’italia è un paese nel quale la meritocrazia non è pervenuta.
di scirea si ricorda spesso la sua tragica morte, il rogo nel quale è rimasto all’interno della fiat 125 con alcuni dirigenti di una sconosciuta squadra polacca in un incidente stradale su un’altra sconosciuta strada polacca.
e difficilmente si ricorda che fu lui, con un suo lancio, a innescare lo scatto di marco tardelli nel 2-0 dell’Italia contro la germania nella finale del 1982.
perché è questo che succede: ci si ricorda del gol e del suo urlo, ma non ci si ricorda mai chi, quella palla, gliela aveva passata. come ultimamente si loda immobile per i suoi gol e si ignora totalmente che nagawa gliele passa tutte e lo smarca come pochi.
e perché era questo che faceva scirea. difendeva elegantemente e poi, se c’era lo spiraglio, faceva ripartire l’azione.
libero arretrato (era “nato” centrocampista), aveva una visione di gioco lungimirante e dotato anche di un discreto fiuto del gol.
e un primato: in carriera non ha mai rimediato un’espulsione. il che induce molto a pensare del suo pragmatismo quando doveva commettere fallo.
l’immenso gianni brera scriveva che non era un difensore irresistibile e nemmeno arcigno, ma era buono.
e così infatti viene descritto: un uomo gentile, silenzioso e dal sorriso impercettibile e semplice. e che legò con dino zoff (altro ricordato sicuramente per la sua loquacità) un’amicizia indissolubile nel tempo, fatta di sguardi e di silenzi.
marco tardelli racconta spesso che, in spagna, non riuscendo a dormire prima delle partite, si infilava sempre nella camera di zoff e scirea che aveva soprannominato “la svizzera”.
giampiero boniperti di lui diceva invece che era un uomo di spessore umano e di pulizia morale.
spessore umano e pulizia morale.
soltanto a pronunciarle, queste parole, sembrano la descrizione di un eroe dei fumetti.
esistono ancora persone così?
a guardare i cosidetti campioni di adesso fa sorridere molto.
oggi scirea manca da ventanni.
ed è diventato una leggenda che resiste alle brame del tempo.

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franco baresi e gaetano scirea, signori e signore.
avete mai avuto la sensazione di giocare là in mezzo al campo, avendo di fronte in un prospettiva straordinaria la propria squadra e quella avversaria che difende?
avete presente la sensazione dell’avere tutto il campo davanti e quante possibilità di far ripartire l’azione?
dipende da quella infinitesimale frazione di secondo nella quale un passaggio verso un compagno non è un semplice passaggio, soprattutto se è verticale, basso e di piatto magari, a tagliare il centrocampo fino a farlo arrivare al centrocampista che è già sulla tre quarti avversaria e poi, poi dio solo sa come va.
ma sei tu, lì, dietro, a vedere l’azione che hai scatenato tu.
e davvero, c’è quella infinitesimale frazione di secondo nella quale un qualcosa nella tua testa scatta e vedi un impercettibile movimento del compagno che taglia dentro e tu, pallone sul sinistro, piattone a infilare il pallone tra i difensori. e via andare di poesia.
sono momenti come questi cheil cuore accendono in un fuoco vivo che arde costantemente.
perché non c’è niente di più bello al mondo di un pallone tra i piedi.
e baresi e scirea ci hanno regalato momenti come questi.

e non so voi, bambini di tutto il mondo, ma a ricordare questi due grandi giocatori mi è salita una malinconia per il calcio che amavo che, a guardare quello che c’è oggi e i suoi protagonisti, quasi mi fa tristezza.

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gli omaggi di franco bruna a franco baresi (sulla gazzetta del 1995) e di gaetano scirea (su hurrà juventus del 1975).

 

 

 

 

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