il punto di rottura

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Quando la Hop! Edizioni mi scrisse una mail proponendomi la partecipazione alla raccolta di fumetti “La fine dell’amore” mi mandò anche la lista dei disegnatori e disegnatrici che avevano già risposto affermativamente al progetto. Quando lessi i nomi di Marco Kazzemberg Galli e Aka B dissi subito di sì, pensando e quando mi ricapita più di apparire in un libro a fumetti insieme a loro? L’idea di esserci insieme a loro fu motivo di grande onore, lo ammetto e lo scrivo serafica. Con Ausonia invece era diverso: ci si conosce, da quella chiacchierata a un lontano Cesena Comics a una mia presentazione a un BilBolBul in una Bologna innevata, a un’altra presentazione, la sua, a quel bel Circolo dei Malfattori oggi purtroppo chiuso. E altre occasioni, sempre belle.
Li ritrovo tutti e tre in un Dylan Dog Color Fest, il numero 16 dal titolo “Tre passi nel delirio”, edito per la Sergio Bonelli Editore in uno degli albi forse più innovativi che la SBE abbia mai dato alle stampe. O forse è solo la mia sensazione appena avuto il fumetto tra le mani, acquistato in un’edicola in via del Pratello a Bologna che mi fece scoprire Luca Genovese e nella quale vado sempre appena sono da quelle parti.
Così, prima di impelagarmi in acque di linguaggi di fumetto non propriamente miei, scrivo queste righe più da lettrice che non da, diciamo, “critica”, anche se non è il mio ruolo e francamente non mi interessa nemmeno ricoprirlo, ma mi serviva una parola per spiegare semplicemente che quando leggo un fumetto ho un’occhio diverso e attento, volente o nolente sfogliando un fumetto ne riconosco passaggi che molti perdono o non vedono, ma soprattutto so cosa significa scrivere e disegnare un fumetto, quello che scatta dentro, l’ansia, la gioia, l’illusione della momentanea soddisfazione, cose così.
Così, non nego che scrivere queste righe hanno anche poco senso, se non l’unica che riesco a giustificare nell’essere vicina al lavoro di Ausonia, Marco Galli e Aka B. Vicina come tifo, nel più pieno appoggio e anche contentezza, perché di fatto mi hanno regalato emozioni, scervellamenti nel capire gli spazi bianchi e i riferimenti, l’intripparmi nel loro modo di disegnare o anche solo immaginare quale tipo di pennello o strumento abbiano usato nello stendere un colore. Semplicemente questo.
Scriverne adesso “fuori tempo massimo” (mai stata sul pezzo e passata l’ondata di recensioni e approfondimenti più o meno plausibili e poi la vera domanda è: è mai fuori tempo massimo un fumetto?), lascia anche la possibilità di osservarlo da così lontano che quasi meriterebbe più attenzione oggi che non nel pieno chiacchiericcio. Perché è una lettura che rimane. Rimane. Resta dentro. Almeno in me. L’ho letto qualche giorno dopo l’uscita di inizio febbraio e, contrariamente a molte altre letture, molte vignette, molti colori, molte frasi sono ancora lì, forti, come dopo la lettura veloce da fame più che da aspettativa, poi ripreso, risvegliato, riletto e ancora nuovamente goduto.
Confesso che le prime recensioni mi hanno lasciato abbastanza perplessa, principalmente nell’essere riusciti ad assimilare un fumetto potente come questo e scriverne così a caldo. Sarà che sto invecchiando ma inizio ad avere bisogno di tempo (curiosa poi la necessità di tempo nella seconda metà della vita che è poi quella che dovrebbe dare lo sprint per muoversi e fare, fare, fare, ‘che di tempo inizia a essercene poco), e proprio questo tempo mi dà la risposta: c’è ancora, non si è perso in me. Che poi mi fa sorridere questa considerazione, ricordando l'”estremo ritardo” della recensione di Michele Garofali per Lo Spazio Bianco linkato e condiviso su Facebook qualche giorno dopo l’uscita del fumetto in edicola, e io gli ho risposto che giustamente aveva bisogno di tempo proprio perché andava letto piano piano per i motivi di cui sopra.
Così come mi sono dispiaciute le critiche. Oh sì, quelle mi hanno fatto storcere la bocca.
Ausonia in uno stato di Facebook si riferiva a frasi come “gente che disegna come mio nipote” e allo stupore di alcuni lettori nel non andare oltre la resa figurativa del personaggio, come se disegnarlo diversamente fosse una storpiatura e non una visione più grande, celebrativa magari, decisamente alta e Artistica in un contesto che, leggendo le feroci critiche, fa pensare che di alto ci sia poco, se non una limitatezza pericolosa. La sua riflessione è puntuale e molto, molto analitica, e bella. In un altrettanto bell’articolo di Guglielmo Nigro sul suo blog sottolinea questo aspetto, quanto cioè questi lettori abbiano davvero capito la storia di Ausonia, quanti parafrasandolo abbiano i codici di accesso a questa riflessione meta-fumettistica.
E così anche Marco Galli e Aka B hanno ricevute le loro, di critiche, senza entrare nello specifico, in quanto di solito la gente si fa i fatti suoi e legittimamente potrebbero chiedermi: a te cazzo frega?
Sì.
Forse sta tutto nelle prime righe.
Tifo per loro, sono di un bravo che ciao e leggerli mi dà gusto e non serve che mi aggiunga al coro di quelli che Recchioni ha fatto strabene. Lo sa lui da solo, e lo sanno loro.
E siccome mi fa ribrezzo terminare queste inutili righe (il cui contenuto si perderà nell’etere per l’irrisolta questione di ereditarietà) con un incitamento da pacca sulla spalla tipo Bravi, continuate così!, vado a fumare una sigaretta e a pensare al fumetto nuovo.

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