Una domenica sera a Montecarotto per festeggiare il compleanno di un’amica. Un locale in chiusura e un concerto di una band dell’Oregon dal sapore così west coast e dal suono ruvido dei primi Weezer, scanzonato alla Kooks, orecchiabile alla Thrills. E all’improvviso riassaporare momenti simili e dimenticati con la mia migliore amica, di quando eravamo giovani e single, prima di diventare mamme zie.
Il CD ha iniziato a girare.
Il CD, quello comprato la sera prima, al concerto.
Sì, ho comprato un Compact Disc nel 2018 e mi accingo a inserirlo nella radio portatile con il porta CD nella parte superiore e con lo spazio per la musicassetta sotto, una che due fa troppo anni ’80. Ho ripreso un gesto dimenticato che, una volta, nel secolo scorso per dirla tutta, era così quotidiano che quando qualcosa assume questa forma lo si da così per scontato da crederlo eterno. Ogni giorno, in qualunque momento della giornata nella vecchia casa al mare, prendevo un CD e lo inserivo, spingendo il tasto play, e partiva la musica riempiendo stanze, luoghi, ambienti, creando un’atmosfera che, abituati a televisori sempre accesi o streaming o piattaforme varie, si è quasi del tutto persa.
Ricordo una sera a cena da amiche: entrai nella loro sala e lo stereo cantava i Sigur Ros, qualche paralume acceso, la tavola imbandita e i calici già pieni di vino versato, e pensai a quanto poco ci volesse a rendere calda una casa, a renderla vera.
Il CD ha iniziato a girare.
Il CD, quello comprato la sera prima, al concerto.
Quante volte ne siamo uscite da questi eventi sconosciuti e sorprendenti?, con una maglietta, o un autografo, o l’acquisto del CD che è meno invasivo e supporta il gruppo nel nostro piccolissimo modo di contribuire e far continuare a vivere quel sogno? Quante?
Diciotto anni sono una vita. I diciotto che ci conosciamo io e te.
Era appena iniziato il nuovo millennio e noi facevamo in continuazione queste cose. O almeno nei miei ricordi erano serate infinite e continue: sicuro poi che tra i miei CD ci sono gruppi che probabilmente non esistono più e che suonano ancora solo nei nostri ricordi, testimonianze di realtà che sono state e che non ci sono più.
A Montecarotto, nelle colline della Val Jesina, in mezzo a vigne di verdicchio che si inseguono nel verde delle onde delle radici dei Sibillini, arrivo per la prima volta. È un paese come tanti nelle Marche: arroccato, vista fantastica da uno dei balconi naturali, mura che abbracciano il paese vecchio fatto di casette colorate e ciottolato e vie strettissime in salita e in discesa. Come inizi a conoscere queste colline e i suoi angoli magici ogni paese ha un suo senso di esistere, perché regala sempre qualcosa: un’emozione, un panorama, una risata, una parole dolce, un sospiro felice, qualunque cosa che rimanga nel cuore.
A Montecarotto c’è una cantina, meglio chiamarla enoteca, ricavata da una delle vecchie rimesse ai piedi delle mura medioevali del quello che era il castello dentro cui la città viveva e dalla cui posizione si difendeva la vallata. Probabilmente quelle mura sono state la qualunque, garage, officine, parcheggi, negozi. Oggi è un posticino delizioso dove si può bere vino buono – tanta Lacrima di Morro d’Alba e Rosso Conero – e birra ricercata dal gusto non scontato.
Il pavimento su cui cammino è ciottolato, pietre storiche appoggiate lì e cucite insieme, i muri sono quelli grossi e freddi, tipici delle grotte. L’arredamento è vario, tavoli tondi, quadrati, rettangolari, una abat- jour con lo stelo ad arcobaleno su due poltrone in stoffa verde in un angolo, sgabelli di legno alti e bassi, sedie di paglia, di plastica, da scuola, da trattoria, tutto è diverso, tutte le superfici, ruvide, lisce, levigate, lasciate senza smalto.
Sarebbe stato il nostro posto, o uno dei nostri. Come il Wadada o Quadrare il circolo a metà degli anni ’90, quelli che avevano il biliardo da un lato, una libreria e la vetrinata delle torte fatte in casa. Poi un palco in legno, o un gradino alto, con un pianoforte in legno di mogano. Tipo quelli, sì.
Ti ricordi il Rock Island? Ti ricordi come abbiamo ballato forte quando hanno messo Tutti i miei sbagli dei Subsonica e noi abbiamo ballato come se non ci fosse un domani? Ti ricordi gli sciortini di vodka alla menta che andavano giù uno dopo l’altro? Avevamo vent’anni e la vita ci sorrideva, o sembrava farlo, in quelle notti lì. Ti ricordi come scricchiolavano dal peso le doghe in legno della palafitta? Te lo ricordi com’era bella la notte sul mare e le onde che scrosciavano sotto il balconcino? Arrivavano gli schizzi di schiuma fin sulla pista alle volte. Te le ricordi le innumerevoli dimenticanze del dove aver lasciato le biciclette dopo quelle serate? Ti ricordi quanto eravamo devastate il giorno dopo, eppure così vive?
A Montecarotto ci vado senza di te.
Siamo donne ormai. Abbiamo messo su famiglia e a me manca l’anello al dito che arriverà questa estate. Tu hai un bellissimo e strepitoso figlio di pochi anni e un compagno che è perfetto per te.
Siamo sempre amiche come allora. Questo sì, non è mai cambiato.
Parcheggiamo dietro le mura, lungo una lingua di ghiaia tra gli olmi: di fronte una serie di casette basse con il tetto con le tegole rosse. Entrando, incontriamo un ragazzo allampanato vestito con una camicia slacciata sul collo e dei jeans neri, con le gote rosse e dalla carnagione bianchissima tipica di molti nordici. Ma lui non è nordico. S. gli dice che abbiamo un tavolo prenotato, lui risponde in inglese: agita le mani, sorride imbarazzato, non sta capendo cosa gli si sta dicendo. All’interno, il locale è vuoto, tranne altri quattro ragazzi seduti a un tavolo tondo e con diverse bottiglie di birra vuote e a metà davanti. Capiamo allora che del ragazzo è uno della band americana che suonerà più tardi.
Mi concedo una birra alla spina. È squisita e sa di fresco. Non è filtrata ma rimane gradevole al palato. Abbiamo scelto un tavolo quadrato, ha delle misure strane o quantomeno non comuni per una sala da pranzo di oggi per esempio, sembra piuttosto uno scarto di falegname o un tavolo molto, molto vetusto e riaccomodato alla bell’è meglio: uno dei cassetti su un lato ha una maniglia di ottone. Lo apro ed è vuoto.
Intorno mura grosse che accolgono chiodi che a loro volta sostengono mensole, lavagne, quadretti di diverse grandezze e con disegni e fotografie ricercate, vecchie insegne arrugginite di marche di liquori che risalgono all’epoca dei nostri nonni, negli anni ’60, telefoni con la rotella e la cornetta, edizioni di libri e fumetti lontani nel tempo con le coste pesanti e importanti, insomma, quel genere di arredamento tra ninnoli e (ti ricordi gli sci sul soffitto al Wadada?) stranezze che ci sono sempre piaciuti.
Non c’è servizio al tavolo. Una credenza con le ante a vetrinetta espongono bottiglie di rosso che variano dal profumato al secco. Le birre imbottigliate rimangono in un frigo lungo dopo il pianoforte. Il bancone è di quelli pieni di cesti e cestini, per lo zucchero, per le cartoline di concerti, per piccole edizioni preziose e sconosciute: lo spazio è così poco, alla fine, che a stringersi ci stanno solo quattro persone, di traverso. C’è anche un’ulteriore vetrinetta con un piano pieno di crostate, torte secche e biscotti croccanti.
Sopra le nostre teste, dietro il bancone del bar, una scala con la ringhiera in ferro battuto sale su gradini in cotto verso una porticina in legno, di quelle da rimessa, che però si apre su una terrazza che, di fronte a quelle onde verdi marchigiane, toglie letteralmente il fiato.
Siamo intorno a questo tavolo quadrato dalle dimensioni strane, abbiamo le nostre bibite davanti, chi Verdicchio nei calici, chi birra, chi cocktail analcolici fruttati dolci o secchi dai colori sgargianti e le chiacchiere sono piacevoli, sono quelle di quando si accumula abbastanza tempo tra un’uscita e l’altra da avere qualcosa da dire. Va da se che io e te troviamo qualcosa da dirci anche se ci sentiamo tutti i giorni, eppure nonostante la chimica con molte persone e anche il gusto di parlarci, quella sensazione di vero respiro e di benessere si percepisce solo con pochissimi.
Siamo lì, sorrisi, sguardi intorno, battute sceme e poi le luci iniziano ad abbassarsi.
Sul palco sale lo stesso ragazzo che pensavamo fosse uno del locale, invece imbraccia la chitarra, si passa la tracolla sopra e dietro la testa appoggiandola comodamente sulla spalla, compone qualche accordo, pigia qualche pedale, prova il microfono e poi inizia a suonare.
Voce e chitarra, semplicemente, mentre chiude gli occhi, sotto le luci basse soffuse fino al buio.
È subito atmosfera.
Quando salgono gli altri del gruppo inizia un concerto che è una sorpresa dietro l’altra: lui è simpatico, racconta del loro tour, di ieri che erano in Austria e del viaggio allucinante, del locale dove avevano suonato la sera prima e delle sensazioni che si prova a essere a Montecarotto, un angolo di mondo che uno che viene dall’Oregon, da Portland per l’esattezza, non immagina nemmeno possa esistere un luogo simile. Racconta che di solito loro sono più rock, ma quelle colline verdi, la gente, la bellezza delle Marche fa venire loro voglia di musica dolce, e infatti la scelta è giusta perché noi, a fine concerto, siamo in coda per foto e acquisti dei CD.
Da italiane è facile fare le battute quando si vive nelle Marche e si ha la possibilità di andare a Firenze in tre ore, la bellezza dell’Italia è a ogni passo eppure questa Italia la bistrattiamo. Pensavamo all’Oregon, a Portland, dicevamo che è lì, nei boschi fuori la città, che è ambientato Twilight per dire, che piove sempre ed è sempre umido, che è uno di quei luoghi così americani che pensare di viverci, noi abituati al sole, al mare, alle spiagge del Conero, a quelle quotidianità che per noi sono scontate, è da pazzi. Non abbiamo idea di cosa sia l’Oregon, io un po’ ce l’ho, ma preferisco queste colline e questo mare, anche se è l’Adriatico e non è l’oceano.
Ma ciò che si crea tra quelle mura grazie a una tipologia di musica molto americana e da garage band è qualcosa di davvero magico.
Non ascoltavo musica dal vivo da anni, al contrario mi sono sorpresa che esistessero locali che permettessero ancora di farlo; negli anni ’90 già si faceva fatica a trovarne qualcuno. E poi mi sono ricordata di noi, della musica che ascoltavamo, della musica che ascoltavo io, quel folk che mi piaceva e, riscopro, mi piace ancora tantissimo.
Quando usciamo dall’enoteca, siamo felici: un piccolo bellissimo inaspettato momento di felicità, dello stare insieme, dell’aver festeggiato un’amica, dell’aver scoperto un luogo nel quale tornare.
In auto, con il finestrino abbassato e l’ara fredda della campagna e delle colline, ora ombre curve stagliate nel cielo scuro, il vento nei capelli, penso che ti sarebbe piaciuto, penso a quanto mi manchi e alla lontananza che, sì, la vita – una vita onesta, semplice, piena, ma dignitosa -, ci separa e non ci permetta una nostra quotidianità, penso che sarebbe stata una delle nostre serate, penso che sì, era una delle cose che facevamo io e te.
Osteria “Sotto le mura” a Montecarotto, frazione di Jesi, regione Marche: le info qui.