Secondo trasloco in quattro anni.
Tra agosto e settembre ho rimesso mano alla mia vita, l’ho chiusa nei cartoni e l’ho spostata di nuovo.
Ma spostare significa trovare.
In questi casi, ritrovare: se stessi, i propri sogni, la propria infanzia, e farne un punto su chi e cosa sono diventata.
Finalmente la casa nuova, in un quartiere nuovo, in una città nuova.
Sono passati mesi e manca ancora qualcosa, ma ne vediamo la fine.
Trasloco 10.
Che cosa ricorderemo di questi primi mesi nella casa nuova.
Ricorderemo le bestemmie: per montare i mobili (uno anche lo scorso fine settimana per dire), per bonificarli (attenzione, non semplicemente pulirli, igienizzarli proprio), per qualche sorpresina per la solitudine della casa, per risistemare e riaprire le nostre nuove vite dai cartoni, per il reparto lavanderia in fieri e intanto lavare due volte le lenzuola perché abituate al sottotetto coperto comune, per i servizi (tv e internet) che non prendono.
Ricorderemo gli odori: il mio saprà sempre di detersivo per piatti al limone, con un mix di aceto bianco e bicarbonato (memorabile la pulitura del forno e delle griglie, comprese quelle sopra il lavandino), e di Lisoform per gli armadi, e di alcol e giornali umidi, e mai credo sarò tanto orgogliosa di un vetro (e qui ringrazio la mamma che mi ha insegnato, da ragazzina, a pulire i vetri); di I., non lo so, devo chiederle quale (al momento siamo talmente esauste che è venuta A. per un caffè e non sapeva nemmeno dove avevo messo le tazzine, povera, nemmeno il tempo di informarsi a vicenda sui quei piccoli grandi cambiamenti che fanno casa: dove ho sistemato la biancheria, dove sta lo zucchero, in quale cassetto le calze, il suo ripiano in bagno).
Ricorderemo le cene “vista cartoni”, un divano, l’unica sedia montata a fare da tavolo e, invece della tv, una parete di cartoni appunto.
Ricorderemo i rumori nuovi: quelli del frigo, quelli del vicinato (gli allievi dell’Alberghiero qui dietro che passano da un vialetto pedonale che taglia gli isolati; la famiglia a fianco e la madre, quasi sempre disperata, a richiamare il figlio, con quell’intonazione araba e musicale; quelli dei vicini di fianco e di sopra).
Ricorderemo la scoperta del quartiere, una volta – in epoca della seconda guerra del secolo scorso – ebraico (il giardinetto con i canestri nuovi e che, a vederli, vien voglia di giocarci anche se come vedo un pallone non penso certo a prenderlo in mano ma semplicemente a calciarlo; gli anziani, che se ne stanno tutti insieme, a chiacchierare, a giocare a carte, a godersi ancora un po’ il tempo mite; i giochi dei bimbi che sono praticamente gli stessi di quando ero piccola io, un po’ arrugginiti, ma oggi, mentre scrivo, ci sarei salita; gli alunni che fanno puffi e si siedono sulle altalene, una coppietta in questo caso, in tutta la loro ingenua, incosciente e spettacolare giovinezza che non immaginano nemmeno per un secondo che tornerà mai più; la scultura – bruttina, in pietra grezza, ma efficace – dedicata ad Anna Frank e a ricordarci ogni giorno quell’orrore che si ripete ancora oggi in forme e modalità diverse; il signore del palazzo di fronte che ha un garage con cucina che tiene pulitissimo; incastrare e capire le strade e sorprendersi di essere “già qui”?).
Cose così, piccolissime, ma a cui lentamente e faticosamente ci si abitua.
E che fanno “casa”.
Questo fine anno siamo state vicino quella “casa”, attraversando comunque il quartiere ebraico, lungo il parchetto nel quale di sera, col buio, i ragazzi fumano le canne.
Oggi è una giornata piena di sole.
Nel parchetto quattro ragazzini chiacchierano e, al momento, ho il caffè fumante in attesa di essere bevuto.