Un difetto di pubblicazione.
La pagina 201 ripetuta.
La 102 fotocopiata da un’altra edizione non fallata.
Ancora oggi, la fotocopia campeggia dove avrebbe dovuto esserci la vera 102.
Ma io e mia sorella ci siamo rimaste comunque malissimo.
La luce entra dalla finestra, donando sfumature alla casa irreplicabili.
Le case dei genitori e dei nonni, quelle che si abbandonano negli anni giovanili, mossi da desideri di ribellione e scoperta, quando ci si ritorna calmi e maturi, assumono quelle sfumature. E si stringe il cuore. Ma quelle sfumature c’erano già, solo che non le si vedevano allora e ce ne si accorge adesso, che è tutto finito.
Il libro lo avevo regalato io a mia sorella. Avevo preso i soldi dal borsellino e li avevo orgogliosamente appoggiati sul piattino di plastica accanto alla cassa del libraio. Mi sentivo bene (mi sento ancora così) quando compravo libri e fumetti: lavoravo sodo, potevo permettermi quelle spese in più che non andavano a gravare sull’economia familiare. Io poi ho sempre adorato fare regali fuori dalle feste comandate. Significa che importa davvero delle persone che ricevono qualcosa, che le si pensa oltre, sempre, lontane da imposizioni sociali e si prova anche gusto, una squisitezza dettata dall’istinto di bontà più puro, nel delegare a un oggetto un affetto che non si riesce a confessare a voce.
Tornai a casa e misi il regalo sul letto nella stanza di mia sorella.
Aspettai che tornasse lei.
Non ricordo il momento dello scartare la confezione o il Grazieeeeee tra i denti attraverso il cartongesso che divideva le nostre camere, e nemmeno la sua emozione di quando lo lesse. Ricordo però che venne oltre, in piedi sull’uscio della mia, di stanza, con il libro aperto a metà e, confusa, cercando di capire l’incomprensibile, mi disse: manca una pagina.
Indossava il suo pigiamino di pile, quello largo (eravamo molto magre entrambe in quegli anni e nei vestiti quasi ci ballavamo dentro), quello che le donava una tenerezza disarmante, struccata, con la pelle lucida e tirata dal latte detergente, con i suoi occhioni che mi guardavano dolci. E ripeto con la vicina ora bassa: manca una pagina…
Come manca una pagina? Dai, hai visto male.
No, no. Manca proprio.
Fa veda.
È vero. Manca proprio!
Come facciamo adesso?
Dici che Mirko ce lo cambia?
Ah dì, proviamo. Ci vado io domani.
Un difetto di pubblicazione, disse Mirko il libraio.
E non è che poteva riprendersi indietro il libro con una pagina mancante per cambiarcelo, anche perché, supponemmo, che fosse un’intera partita di libri fallati a cui mancava la pagina 102 di “Ogni cosa è illuminata” di Jonathan Safran Foer; partita fallata di difficile identificazione per altro, perché nel frattempo era il 2005 e il libro continuava a essere uno dei più venduti (era alla quinta ristampa) e non c’erano mai resi, ma semplici giacenze in magazzino.
La piazzetta della Creperia aveva sempre quell’aria da sabato mattina, quella nella quale gli esercizi commerciali stanno per aprirsi a fronte di una giornata impegnativa e con la solita lentezza di chi sa che a fine giornata sarà spremuto come un limone, quasi a godersi quegli istanti di clama prima della tempesta. L’annaffiare allora il ciottolato di Carlini, i ragazzi della Creperia a servire qualche cappuccio e brioche ai clienti stoici che si sedevano fuori, la panetteria che sfilava baguette e creava vetrine con i grissini di pane, i cestini in vimini e dei fiocchetti a quadri, le finestre silenziose degli uffici, sonnecchianti, riparate da tende tirate e impenetrabili. C’era sempre una magia strana in quel quadrato di Rimini.
Mirko poi in quegli anni non aveva ancora ampliato la libreria, e le sue vetrine davano sulla piazzetta respirando ogni giorno quelle sensazioni, e quelle dei passanti.
Jonathan Safran Foer e il suo “Ogni cosa è illuminata” in quel lontano 2002 arrivò come un pugno nello stomaco (per la narrativa), travolgendo noi lettori e stravolgendo il modo in cui si scrivevano i romanzi. Ora, sorvolando sul significato di romanziere e virtuoso della scrittura e molto tecnico e di mestiere – anche solo nel presentarsi al pubblico, l’estetica dell’abbigliamento e gli accessori che creano i personaggi -, non sono così esperta di tecnicismi e codici narrativi da poter inerpicarmi in analisi professionali, tranne nel semplice mi è piaciuto/non mi è piaciuto riuscendo poi però a dirne i motivi. Per altro, l’unico scrittore in questi venti anni di letture che mi ha dato la sensazione e mi ha fatto capire che esistono tecniche narrative è Dave Eggers (David Foster Wallace mi manca completamente, lo so, è blasfemo per molti ma i suoi libri e saggi non mi hanno ancora “chiamato”), e non certo Safran Foer che onestamente trovo un buon romanziere ma nulla di più. Come se non bastasse, ultimamente sto soffrendo moltissimo il gridare al capolavoro di qualunque cosa arrivi dagli Stati Uniti e, soprattutto, l’osservare il loro metodo di fare cultura e il loro essere intellettuali che viene paragonato al nostro, e ogni volta se ne esce sconfitti, e io non sono molto d’accordo in questo, perché credo che la nostra cultura e il nostro essere intellettuali non abbia nulla da invidiare al loro (abbiamo avuto scrittori ed editori che loro se li sognano, in una storia, quella dell’Italia, sì influenzata dalla politica, ma santo cielo che tempi! che fervore! che idee!); a peggiorare le cose proprio Safran Foer che arriva in Italia e viene accolto e coccolato come un attore di Hollywood, come se il pubblico italiano non avesse mai visto celebrità (a un paese che ha la Sofia Loren e ha avuto il cinema di Rossellini e di Pasolini). Senza tralasciare che le nostre riviste hanno sottolineato lo scambio di mail tra Safran Foer e Natalie Portman come se fosse alta letteratura. Ma quello che più mi infastidisce è il raccontare tutto questo, è l’alone di leggendarietà che viene costruito intorno a questi personaggi, miticizzandoli: questo mi riesce difficile digerirlo. Credo per una questione di giustizia che c’è solo nella mia testa, perché l’Italia e gli italiani non sono da meno, e continuo a sostenerlo.
Rimediammo con una fotocopia della pagina 102 da un’altra edizione, quella successiva perché il romanzo ebbe la ristampa tipo il mese dopo, ma ormai il gusto si era perso, ricomprarlo nemmeno a parlarne, e poi ci eravamo affezionate a quella copia zoppa.
Curioso, affezionarsi alle cose imperfette.
Così, io e mia sorella non abbiamo mai letto la pagina 102 del romanzo di Safran Foer. Cioè, sì, un mese dopo, tenendo in mano quella fotocopia bianchiccia con i bordi neri sfumati.
Quella copia è ancora così, e non abbiamo mai pensato di comprarne un’altra per sopperire o cambiare quella copia nata storta.
Quando poi ho letto il libro, tantissimi anni dopo, ne ho capito il successo dell’epoca (aveva ribaltato completamente la linearità del fare narrativa degli inizi del 2000, e probabilmente negli Stati Uniti avevano bisogno di qualcosa di “rottura” dello stile, orami da troppi anni stantii e attaccati ancora ai ragazzi ribelli come Easton Ellis e McInerney) anche grazie all’eccellente traduzione italiana che mi ha permesso di cogliere tante sfumature. Dopo di che, a leggere il libro almeno quindici anni dopo mi è sembrato un successo esagerato, con le domande che mi si scatenano in testa: possibile che nel 2002 non fosse uscito nient’altro di tale portata?, possibile che sia confluito tutto su Safran Foer?, possibile che i nuovi romanzieri non abbiano nessun talento nel rendere eterni i loro libri?, perché io leggo Bassani, Pavese e Levi nel 2017 o anche solo Roth e mi sembrano attualissimi ancora oggi?, possibile che leggere Safran Foer mi dia sempre quella sensazione di odore di chiuso quando apro un armadio?
Non mi capita solo con Foer naturalmente. È capitato anche a me stessa – doveroso essere onesti – rileggendo uno dei miei fumetti, ma anche con tanti autori italiani.
Ma è un volume che rimane lì, una lettura che non cambia la vita, e della quale rimanere anche male, dopo che ne hanno parlato in maniera così entusiastica.
Con un aspetto che rende più facile questa opinione: Safran Foer è lontano anni luce dalla mia vita e non mi capiterà mai di parlarci, per cui non è il libro o un fumetto di un amico/a per il quale poi si hanno scrupoli – sempre insiti e inconsci – nel definirli.
Curioso davvero affezionarsi alle cose imperfette.
Il libro ce l’ho ancora io.
Mia sorella mi ha appena telefonato.
Abbiamo ripreso a scambiarci i libri come quando appena una parete di cartongesso divideva le nostre sensibilità, anche se abitiamo in due città diverse ora.
Le ho chiesto se ha letto quelli che le avevo prestato.
E lei: e tu?, quando mi ridai il mio?