Inizia ad affievolirsi.
Inizia a essere quel bel viaggio che racconti agli amici, quei bei ricordi che salgono da chissà quale parte di noi a suggerire quando si sente che poi, uno di loro, uno di questi amici, va a sua volta a New York.
Inizia la luce pure, a entrare timida dalle tapparelle semichiuse.
È l’alba. I colori della notte sono ancora percepibili.
Mi sveglio, rigirandomi nel letto senza pace: tanto vale alzarsi. Mi piace dormire ma ci sono mattine nelle quali le prime ore sono belle nonostante l’ora.
C’è un sole arancione ora che punta forte, dritto, ad altezza di palazzo da tre piani. Ogni volta che vedo quella luce arancione, quel calore, quell’intensità mi ricorda alcune foto di me bambina: lo stesso arancione, lo stesso calore, la stessa intensità addosso a una bambina con i boccoli e una salopette rossa.
Com’è lontano quel gelo americano.
Com’è lontano quel freddo.
Eppure, quel poco che va ad affievolirsi è ancora lì.
E ancora.
La luce del sole ora è splendente, l’arancione ha lasciato il posto a raggi estivi e potenti mentre le tapparelle e le finestre dei vicini sbadigliano e si alzano come ogni mattina.
E allora, nei rumori mattutini del risveglio, chiudo gli occhi. E ricordo.
Chiudo gli occhi, per poco.
Il tempo di farmi abbracciare ancora da quelle immagini.
Poi sì, farò tutto da copione, come ogni giorno: gli esercizi per la schiena, la camminata, le tavole di Volevamo essere le Spice Girls e quello che viene, nello spazio riservato alla lettura.
Ricordo che erano due.
La Rizzoli Lizard mi aveva mandato due copie delle cosiddette copie staffetta de “Il Giorno Più Bello”.
Credo di aver trascorso almeno un giorno accarezzando il fumetto, studiandolo nei minimi dettagli: lo conoscevo naturalmente, ne avevo seguito ogni passaggio della lavorazione ovviamente, ma, averlo tra le mani, ecco, è qualcosa a cui non ci si abitua mai. Dall’odore, alla pesantezza, alla risoluzione, alle accuratezze: ci sono particolari che fino a che non si ha in mano la propria creazione, non si percepiscono.
Lo avevo portato negli Stati Uniti quasi per gioco. E l’idea di fotografare “Il Giorno Più Bello” in zone di New York più o meno turistiche è venuta così, senza troppi preamboli o studi di sorta; al contrario, è passato più di un giorno prima che lo tirassi fuori dallo zaino. I post su Facebook, poi, sono davvero indicativi a riguardo: alla prima foto, sulla High Line, una frase breve, concisa, nulla di emozionale; poi ci prendo gusto ed è un crescendo, i post iniziano a essere diversi e, cosa fatta difficilmente su un social, prolissi.
Ricordo il cielo azzurro.
Ricordo il volo Delta, io ancora incredula della bellezza cartotecnica del mio fumetto, e noi quattro sull’aereo.
Entusiaste, come bambine: io con lo schermo sul poggiatesta e un sacco di film a disposizione. Ma “Il Giorno Più Bello” era lì, girava tra le nostre mani: Anna e Lilli non lo avevano ancora sfogliato.
Otto ore di aereo non sono poche, così, dopo un paio d’ore di lavoro tra Ila e Anna, è proprio lei che cerca qualcosa da leggere, in quel lasso di tempo dedito allo svago. Il fumetto è lì, sul tavolino reclinabile del sedile di Ila.
Inizia a leggerlo. Il volto di Anna, i suoi occhi vispi che passano da un balloon alla vignetta, le sue espressioni, quei mezzi sorrisi e poi quelli veri, quelle pause, quel respiro voltando pagina e soffermandosi un attimo a pensare a ciò che aveva appena letto.
E io a osservarla, nascosta da Ila.
È un esperimento che tutti dovrebbero fare: quello di osservare un lettore nell’atto di leggere il proprio fumetto.
Anna è stata la lettrice perfetta: sorrideva quando – nelle mie intenzioni scrivendolo e disegnandolo – doveva sorridere; pensava quando doveva pensare; rideva quando doveva ridere; si emozionava quando doveva emozionarsi. E lo ha chiuso con quell’espressione con la quale io speravo che chi leggesse il fumetto avesse appena conclusa l’ultima pagina.
Anna non aveva mai letto un fumetto. Il mio poi era il primo in assoluto.
Non dico che se ne sia innamorata, di questo genere di lettura, ma attenta lo è diventata: incuriosita da ciò che sente e vede in internet, non esita a chiedere consiglio.
Poi, quel cielo azzurro ci ha seguito per gran parte del nostro viaggio.
E il fumetto che all’improvviso appariva nelle foto più impensabili.
Ricordo.
Ci sono ricordi preziosi. Come quando provo a rivedermi al tavolo da disegno in quei mesi di gestazione de “Il Giorno Più Bello”. Me lo domando: come stavo? E sorrido, perché stavo benissimo. Finivo le giornate e più facevo più c’era soddisfazione: soddisfazione relativa conoscendomi, momenti piuttosto, nei quali avevo la sensazione di star realizzando un bel fumetto.
Non il mio capolavoro, si capisce. Ma un buon fumetto sì. Dall’architettura ben precisa, dalla struttura solida, un esercizio di stile, volendo.
È un fumetto felice. In tutto. Fresco persino, come è stato definito.
Volevo che trasparisse questo aspetto, che il lettore/lettrice lo finisse con il sorriso sulle labbra. Sapevo che volevo raccontare quel momento di passaggio – sottile, per molti impercettibile, spesso naturale e a volte doloroso, ma fisiologico -, dall’essere scanzonate a quello della costruzione di un rapporto, quando gli equilibri tra amiche vengono messi in crisi da un evento come il matrimonio, che, nella società di oggi, nei giovani che iniziano ad avere una propria indipendenza economica tra i 30 – 40 anni, si sta nuovamente trasformando in una decisione importante, definitiva, per cui la persona che si sposa è quella con cui si invecchierà.
La storia nasce, come spesso mi accade, da un’immagine, o diverse evidentemente di una vacanza in Puglia e il desiderio di ambientarvi un fumetto; fin dall’inizio della stesura avevo in mente il contrasto che doveva esserci tra Vanessa e Gio, le differenze abissali delle due personalità, e di un personaggio come Tina che, con la sua scelta, determina la rottura e il ricomporre dell’equilibrio del gruppo. Poi ho costruito il resto della trama, aggiungendo, soppesando, creando situazioni e soluzioni per me nuove, anche graficamente, giocando con le prospettive e i tempi di lettura.
È anche un fumetto ricco di scelte, di ragionamenti, l’ esercizio di stile di cui sopra, partendo proprio dalla leggerezza che lo contraddistingue. E non è così scontata raccontare e saper usare la leggerezza.
È un fumetto che mi ha tolto tante paure.
Di fatto, ruoto tre personaggi, cosa che non avevo mai fatto perché ho sempre avuto una protagonista e poi dei comprimari da muovere. E poi Vanessa è un personaggio volutamente antipatico, altra cosa che non avevo fatto, o almeno non ho mai lasciato che un personaggio “negativo” finisse bene. Lopi in “Cinquecento milioni di stelle” per esempio finisce malissimo secondo me, e non ha soluzioni, non ha redenzioni: stronza è, stronza rimane. Vanessa invece si salva, cambia, almeno si fa perdonare.
Non avevo mai gestito tre personaggi, tre personalità differenti e nemmeno quasi venti tavole di dialogo, e nemmeno 20 di pizzica, usando colori definitivi e simbolici, e facendo una regia dei movimenti e della gestualità di questo ballo tradizionale e regionale, la cui caratteristica è essere una danza di corteggiamento nella quale non ci tocca mai, ma appunto ci si corteggia ballando divertiti magari, oppure con accento sensuale o significato costruttivo, interpretandola infine.
Era la mia prima prova per un fumetto a colori, scelta e aspetto sempre non scontato. Per me è stato un passo importantissimo, che mi ha fatto capire a che livello fossi arrivata.
Persino il titolo non credo avrà lo stesso senso che gli ho dato io per chi legge. “Il Giorno Più Bello” può essere anche un titolo mistificante: per esempio, nella stesura non intendevo il matrimonio come “giorno più bello”, ma quando le ragazze vanno in spiaggia e si godono il sole, il bagno in mare, la spensieratezza e il lento scorrere del tempo come solo le giornate estive vacanziere sanno essere.
È un fumetto che mi ha portato tanto e anche tante certezze: oggi sto disegnando un fumetto che alza moltissimo l’asticella, sia come storia sia come disegni, e se non ci fosse stato questo “mio giorno più bello” non sarei mai arrivata a quello che sto realizzando adesso.
Ne parlavo a cena con un’amica scrittrice (e qui mentre lo scrivo mi sento tipo come quelli intellettuali che se la credono, quelli che di solito si prendono in giro. Poi però ci si rende conto che il proprio ambiente è questo e alcune conoscenze e amicizie ne fanno ineluttabilmente parte, anche se io mi sento una qualunque che ogni giorno lotta per fare questo lavoro bellissimo e difficilissimo, in Italia; non mi sento “L’Artista” “che guarda dall’alto” ma una che va a cena con una cara amica che di lavoro scrive e con la quale parla di struttura, di composizione, di personaggi che prendono il sopravvento o che scegli di far morire perchéeee, perché).
Dunque, ne parlavo a cena con un’amica scrittrice.
Discutevamo sul fatto che il nostro pubblico ama fumetti e libri scritti da noi autrici ma sui quali non sempre c’è lo stesso gusto; forse perché li abbiamo creati noi, li abbiamo realizzati, li abbiamo visti crescere e “perderli” mandandoli in stampa, in mani non nostre, in mani che potevano bistrattare nostro “figlio”. Ce n’è sempre uno che si ama di più e che non coincide con il pubblico.
Ma per me no: ogni storia è un piccolo tassello del mio cammino artistico, della crescita e dell’evoluzione del segno e dello stile.
Sono legata a ognuno di essi, perché mi hanno insegnato a padroneggiare il mestiere, a “smussare gli angoli” e a renderlo sempre più professionale.
“Il Giorno Più Bello” per esempio lo ritengo il vero spartiacque della mia carriera e al quale devo molto, per quella miriade di motivi di cui sopra.
Per dire “Io e te su Naboo”, oggi, è un fumetto pieno di errori classici dell’opera prima: è acerbo, è pomposo nei testi, tende a spiegare qualunque sentimento e qualunque vignetta. È manchevole di struttura e di composizione, eppure è assolutamente naturale che pur non essendo perfetto – e forse proprio questi difetti ne fanno un’opera che difendo – è il fumetto che mi ha portato a “Cinquecento milioni di stelle”.
“CMDS” invece è arioso e volevo che lo fosse, volevo che “si respirasse” asciugando tantissimo i dialoghi, eliminando le didascalie, ma muovendo solo i personaggi, i gesti, gli sguardi, i luoghi e il disegno a sua volta è migliorato ancora dall’incertezza del primo.
“Il giorno più bello” alza l’asticella, seppur leggero: tre protagoniste, struttura, composizione, uso di spalsh page ragionate e precise, quell’esercizio di stile di cui sopra, dimostrando a me stessa di saper gestire quasi venti tavole di dialogo tra Vanessa e Gio e portare il lettore dove volevo portarlo. Non è scontato, lo ripeto e lo sottolinearò sempre.
E “Il Giorno Più Bello” infine, e a sua volta, mi ha portato a “Volevamo essere le Spice Girls”, che (respiro lungo e con un abbozzo di sorriso quasi soddisfatto, orgoglioso direi) mi sta rendendo felice, mi sta facendo soffrire, mi fa precipitare in sensazioni e mi blocca, mi fa ripartire e raggirare il problema o dialogo che sia e mi fa tornare sullo stesso… insomma, è un viaggio, ed è emozionante, provante, ma qualcosa di grande, qualcosa che ritengo molto grande nella mia carriera.
Intanto, ciò che è rimasto si sta scegliendo un cassetto della memoria ed è infilato tra le pagine colorate del fumetto. Cimeli, scontrini che perderanno colore, luoghi che chissà se avrò più modo di rivedere. L’hamburgher al Five Guys, uno di quei ristoranti all’americana molto in stile Clerks II; un caffè nell’ubriacante Times Square in una caffetteria dall’eloquente nome italiano senza chiaramente un caffè che assomigliasse anche solo lontanamente a quello appunto italiano; e un altro di cui non ricordo più né l’acquisto né dove fosse.
Questo rimane: il biglietto della MetroCard, quello aereo della Delta Airlines e quello per l’autografo dei Blue Man Group; sì, perché in quel rettangolo di carta blu, dietro c’è a sua volta un quadrato bianco, stile francobollo, il cui spazio di solito viene riempito dal bacio di uno degli attori. Quel bacio è finito sulla copertina del fumetto.
Questo rimane, sì.
Ricordi che iniziano ad affievolirsi, anche ora che c’è a marzo un’altra tempesta di neve persino peggiore di quella che beccammo noi lì, a New York all’inizio di febbraio.
Ma quello che non si affievolisce è la voglia di poterci ritornare, un giorno. Magari quello bello, così chiudiamo il cerchio.