Lettera a Niccolò Fabi e su quanto mi saresti mancato se avessi smesso di fare musica

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Io, I. e A. abbiamo trovato posto a sedere solo sui gradini della Piazza Giacomo Leopardi a Recanati, a lato del palcoscenico. Le file di sedie a V, di fronte al palco, erano già tutte occupate. Sedute lì, ti abbiamo aspettato iniziare a cantare.
Le stelle brillavano nel cielo limpido, estivo, scevro di qualunque nube in quel blu luminoso.
A Recanati si sta svolgendo il Lunaria 2015, un festival particolarissimo che unisce parole e poesia alla musica. Quest’anno, complice un anniversario su Giacomo Leopardi, nativo della cittadina marchigiana, ha impreziosito il programma e, visivamente, la città. Spettacolare il suo corso principale, in cui si passeggia sotto le scritte illuminate dei versi dell’Infinito.

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Gli angoli offrono rimandi all’arredamento dell’epoca del Giacomo dell’ermo colle e poster del film di Mario Martone, Il giovane favoloso in cui recita il sempre bravo Elio Germano – ospite poche settimane fa -, tappezzano bar, vetrine, facciate di musei e persino la torre in piazza. Ma tu lo sai già, ci ha raccontato della magia di Recanati in quel pomeriggio di prove e dell’atmosfera passeggiando per le strade.
Non ti vedevo dal vivo da almeno quindici anni e le quattro volte in cui ho partecipato a un tuo concerto, erano tutte a Rimini, di cui una anche al defunto Io Street Club.
E mi riscopro a 39 anni di amare la tua musica più di qualunque altro autore italiano. L’essere fedeli musicalmente è come l’essere fedeli agli scrittori; è molto sottile. Basta un singolo o un libro che soggettivamente non piace e si volta le spalle a musica e pagine che hanno regalato momenti spesso indelebili. Ti seguo da sempre, Niccolò; certo, con alti e bassi, ma da sempre. Ho comprato molti tuoi cd soprattutto quando il cd non era ancora un oggetto obsoleto (e continuo a farlo) e, da lontano, come un vecchio amante, ti ho osservato. Ti ho anche visto a un metro di distanza, a Rimini. Eri durante una pausa delle prove per un concerto. Eravamo sotto una tensostruttura montata appositamente per quell’evento, nella zona del porto, e con te sul palco si alternavano Carmen Consoli e altri. Avevi ancora i capelli alla Capelli. Ti ho osservato così a lungo, rapita dal tuo essere così umano e semplice, mischiato tra gli altri, quasi nascosto, senza spiccare come avresti potuto e concesso il lusso di fare nel 1997, che ho immagazzinato il ricordo di quel pomeriggio caldissimo, messo in un angolo prezioso della mia memoria.
La tua musica mi ha regalato gioia, poesia, tristezza, spensieratezza, allegria; momenti nella mia storia personale che sono solo miei, miei e tuoi, anche se tu non lo sai. non puoi saperlo.
Dopo la prima canzone, con un’umiltà scioccante, ti presenti, come se la gente non ti conoscesse, come se fosse il tuo primo spettacolo, e ci dici di immaginare le storie delle persone sedute o che passano sul corso e si domandano: ma è Fabi? ha fatto più qualcosa di nuovo? ci dici che a te piacciono queste storie, ci dici che ti chiedi quale tipo di storia, anche se non ci vedi a causa dei riflettori, possiamo avere.
Ecco, io non so quelle degli altri Niccolò, ma so la mia, o almeno in questa lettera che verrà perduta nell’etere e mai scritta a mano, in brutta e bella copia, su carta e chiusa in una busta di quelle che oggi quasi non esistono più, questa lettera virtuale nella quale ti racconto di varie e sparse prima di salire in auto e raggiungere Recanati. E te.

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Io e I. andiamo in spiaggia in quel sabato afoso. Siamo sulla spiaggia di sassi a Marzocca di Senigallia, scegliamo quella per comodità e, nel tempo, sta diventando la nostra spiaggia, nostra e delle amiche. Poi capita che si vada anche a Senigallia al Mascalzone, ma con meno frequenza.
Abito nelle Marche da quasi tre anni e continuo a rimanere profondamente riminese, forse ancora un po’ snob, e non è stato facile vivere la spiaggia come ho imparato a viverla in queste estati marchigiane. Sai, sono cresciuta educata ad andare in spiaggia in bicicletta prima e poi in Vespa, per poi tornarci in bicicletta dopo l’incidente per cui non voglio più salire su un motorino in vita mia. Sono cresciuta su una spiaggia dalla sabbia fina, con tutte le comodità possibili: parcheggio facile, ombrellone e sdraio subito pronto all’uso, bar a destra e a sinistra della passerella, docce di fronte, mare alle spalle. Imparare a parcheggiare l’auto lontano e caricarsi ombrellone, sdraio e borsa frigo, è stata una novità. L’andare in spiaggia è come un appuntamento, è una di quelle cose che organizzi, quando invece nelle mie estati riminesi riuscivo anche a fare casa – spiaggia/spiaggia – casa, anche dieci volte al giorno ed era tutto fuorché decidere di andarci o meno. C’è sempre stata, l’andarci era il semplice prolungamento della giornata lavorativa. Peggio, non è mai stato in discussione che non esistesse. È come le Alpi per uno di Torino: sono lì, ci sono sempre state, sono il faro della città, ciò che ti permette di non perdere l’orientamento, così per me il mare: la sua vastità non mi spaventa, e anche solo nel dare indicazioni stradali è dove sta il mare il metro di misura; è stupido, lo so, non sono questi i problemi anche perché si riduce tutto all’abituarsi a queste piccole cose diverse fino a che non si trasformano in qualcosa che si è sempre fatto, è talmente stupido che sembra quasi non abbia altro a cui pensare. Ma immagino che sia quello che accade quando un cambiamento nella vita che, pare, si possa affrontare senza drammi, in realtà è molto più radicale di quello che si credeva. Io ho avuto la possibilità di ripartire da zero, cambiando tutto e cambiando luoghi. Ancora adesso, mi rendo conto di non essermi ambientata appieno; mi mancano le distanze (da Montemarciano devo sempre guardare Google Maps), mi mancano abitudini, mi mancano ricordi. La verità è che mi manca una Storia che mi colleghi a questi posti che vivo quotidianamente. Quando torno a Rimini è sempre un racconto, è sempre un “quella volta che”, è sempre un’immagine di me persa nel tempo color seppia (ma spessissimo è a colori dai contorni un po’ sfocati) di un bar, di un tabacchi, del negozio dove compro ancora oggi i colori, della copisteria dove facevo stampare le mie autoproduzioni, un edicola. Oggi posso dirlo: torno a Rimini e ho una Storia, mia e da raccontare, molto più grande, profonda, intima di quello che pensavo, una Storia che ho imballato in uno scatolone e chiuso come un pacco di fumetti uguale a un altro. Ma questo, non è mai stato un pacco uguale agli altri e suppongo sia una grandissima libertà e possibilità potersi permettere di prendere e lasciare tutto, ricominciare da capo in un altro luogo avendolo sempre sperato ma mai con quella forza che serve per concretizzarlo (e la libertà anche di ritornare a viverci volendo), solo perché, come una bambina capricciosa, mi ero stancata di stare lì. E suppongo che sia Vita anche questa, andare un po’ avanti per capire che, con un altro animo, un po’ più sicuri di se stessi, un po’ più forti e non più sottomessi dalla propria autostima non proprio alta, pericolosissima per altro, uccisi spesso per la propria sensibilità da persone basse di umanità e moralità, ecco, capire che l’andare oltre per tornare anche indietro e viverlo purificati, con meno scorie almeno, non è poi così male, ecco.
A Marzocca, quel sabato, I. si addormenta sotto l’ombrellone e io, stesa con il libro a fianco che prova a chiamarmi ma che non sento nemmeno avessi i tappi, mi guardo intorno. Mi piace da matti osservare le persone intorno a me, immaginare le loro storie (sì, proprio come te), osservarli nei movimenti, nei gesti, tipo se parlano ad alta voce, se sono gentili, chi fuma e come lo fa, pensare a, più che farmi i fatti loro, in modo molto etereo, pensare alle infinite possibilità di vite che si incrociano, perché si incrociano, anche se mi attanaglia ciò che non conoscerò mai, ciò che non vedrò mai, con quella sensazione di possibile perdita di qualcosa di bello (o brutto) che non mi è stato concesso vedere. Allora, in quel dolce far niente, le chat di Whatapp tintinnano continuamente: sciocchezze per lo più, emoticon, faccine, persino i simboli cinesi, giusto così, per variare, ma anche proposte per la serata.
È A. che scrive che ci sei tu, in concerto, a Recanati. La conversazione è talmente stramba, tra i messaggi di tutti senza un filo conduttore ben preciso che alla fine non si capisce mai nulla. E infatti, io per esempio scrivo che ci sono due finali, quella di Copa America tra Cile e Argentina e la finale terzo/quarto posto tra Germania e Inghilterra del mondiale di calcio femminile, anche se so che non interessa a nessuno, chi (A.) che prova a spiegare cos’è il Lunaria, chi non mi ricordo. Tanto che, in un lampo di lucidità, quando rispondo ad A. scrivendole che noi ci siamo, per venire a vederti, lei non capisce. Questi lampi di lucidità che ogni tanto mi vengono, prepotenti e che nascono da dentro (come quando devi fare una domanda stupida e della quale sai già la risposta ma ti devi far sentire dire di no, che quella cosa ti fa male e bisogna starci alla larga, però, anche se è stupido, lo devi fare, ti devi far dire di no da un altro per rendere materiali i tuoi pensieri, o almeno averne anche un testimone), mi è rimasta dal Cammino di Santiago, il secondo – quello cioè per cui ho ancora due unghie nere che non vogliono ancora cadere, ma almeno i buchi nei piedi sono passati -: l’urgenza e il desiderio di scegliere la Vita, di Vivere, di respirare. Sceglierla poi al divano o comunque all’ennesima partita/e che posso vedere in qualunque giorno in inverno. tanto che anche gli altri si sorprendono, non capiscono. Io scelgo di uscire quando in televisione c’è il calcio? hanno bisogno di tempo per concretizzare.
Succede talmente in fretta, decidere luogo e orario, che rispetto al resto passa quasi inosservato.
Succede talmente in fretta, I. che si sveglia e le dico che andiamo a Recanati, salire dalla spiaggia per prepararsi senza correre, essere in auto con A. che ci indica la strada interna, trovare anche parcheggio senza nemmeno troppa insofferenza che siamo già lì, sul corso sotto le scritte al neon dell’Infinito.
Succede talmente in fretta che, però, ogni istante è rimasto impresso, c’è, non è scivolato via, non si è perso per non ritornare più.
Mi hai commosso.
Alcuni momenti del concerto sono stati così emozionanti da crearmi un nodo alla gola. Mi hai commosso a tal punto che non riuscivo a chiedere all’Ila se le piacesse, a lei, che era la prima volta che ti vedeva dal vivo. Le avrò chiesto cinquecento volte se era vero, che non aveva mai, mai, mai visto un tuo concerto dal vivo. Nella mia testa è una cosa che DEVE essere fatta, che si fa, come, che so, non aver mai visto Guerre Stellari. È impossibile, è una di quelle robe fondamentali nell’educazione di chiunque, nell’educazione di persone fortunate come noi, che si fanno il culo per sopravvivere, ma che hanno tutto, a parte gli scherzi, abbiamo tutto, compreso l’amore, che si possono permettere un auto, di mantenerla e di fare più di un viaggetto all’anno. E abbiamo i sogni. Tutto abbiamo.
Eppure dovrebbe essere semplice, la vita, dovrebbe essere semplice, e facile, eppure, essere lì, con I. e A., le amiche, a godersi le piccole bellissime grandi cose che, a volte, questa vita terribile, ti regala e farlo con quella leggerezza e voglia vera di vivere, dovrebbe essere quasi scritto e notificato nel contratto di vita che ti rilasciano quando nasci.
Non me l’aspettavo, un’emozione così forte. Non mi ricordavo quanto la tua poesia musicata fosse stata così importante nella mia vita. Non mi aspettavo di essere emozionata nel vederti cantare dal vivo come fossi una bambina che ha i tuoi poster attaccati alle pareti della sua cameretta e vede il suo idolo, lì, a pochi metri, così potenzialmente raggiungibile, così potenzialmente tangibile. Mi mancava, forse, riscoprirmi viva in questo genere di cose. Pochissime volte, in pochissimi casi, mai stata una che faceva queste cose. Solo per Marco van Basten, e infatti, la mia cameretta era tappezzata di poster del Milan e di van Basten. Sempre detto; ho amato solo due uomini nella mia vita: mio padre, sopra ogni cosa, e van Basten. Poi sì certo, il mio ragazzo storico che poi ci siamo anche lasciati, quindi tutto questo amore magari non era, di quelli giovanili, rosa, romantici, da prima volta, sì, ma lui era anche interista, e forse, semplicemente, non era destino, non era lui.
Amo ciò che rappresenti, la tua essenza di musicante, nella mia esistenza. Questo sì, di te, lo amo. Amo ciò che mi lascia l’ascolto di una tua canzone, amo cantarle, amo la perfezione di alcune tue canzoni (non lo sono per te, ma lo sono per me e questo vale, non la tua opinione ma la mia), sì, amo ciò che mi rimane dopo.
Ho indossato la gonna. E i sandali aperti. Chi mi conosce, di me ha un ricordo di abbigliamento comodo, con il mio stile certo, ma da me ti aspetti che mi presenti con un paio di pantaloncini da calcio e infradito a un caffè con te, o con la salopette, le espadrillas, i capelli spettinati e quasi, totalmente, trasandata. non certo indossando una gonna.
L’ho comprata tanto tempo fa. Ero magra, molto magra, nella vita precedente, prima di cambiare, prima della mia nuova Storia nelle Marche; poi ho ripreso peso, troppo, davvero troppo, fino al secondo Cammino che mi ha fatto tornare un po’ in forma, o almeno nei vestiti della mia vita di prima. e avevo una voglia di indossare la gonna da matti. La tenevo appesa alla gruccia sul ciglio dell’anta dell’armadio, per ricordarmi che avevo un appuntamento con lei. Quale migliore occasione di estrema felicità (perché ci rientro dopo due anni tra l’altro), con le amiche a un tuo concerto, per celebrare la Vita, vestita, per una volta, come si deve?
I sandali sono quelli argento. Tutte le mie cose hanno una loro storia e a me piace raccontarle, è mia ovviamente, personale, ma ogni oggetto ce l’ha e spesso la si dimentica. Prima mi capitava, avere crisi di nervi pesanti da spaccare qualcosa. A ricordarlo, oggi che non le ho più, era anche divertente, perché nell’immenso nervoso e carogna, c’era quel momento in cui prendevo in mano qualcosa da spaccare e poi un neurone di senso bussava e collegava il reparto memoria e mi ricordava perché quell’oggetto mi sarebbe mancato se lo avessi distrutto. Solo dopo cascate di lacrime, reprimendo il nervoso che non potevo sfogare con la rottura simbolica della mia rabbia, mi veniva il mal di testa e non spaccavo mai niente, ma l’istinto c’era, c’era eccome.
I sandali sono quelli argento. Li ho comprati in un eccesso di femminilità, ho comprato tante di quelle gonne e sandali che naturalmente sono seppelliti nell’armadio, ma almeno mi ritrovo un abbigliamento piuttosto variegato. Non so perché ricordi quel giorno, che cosa avesse di così speciale, perché ricordi quel pavimento bianco del negozio, quell’aria condizionata del centro commerciale, quell’argento, non lo so, però è lì, come tante altre cose che girano nella mia testa, non tutte in ordine nei propri cassetti.
Il concerto è quasi oltre la metà. Canti le canzoni del progetto con Gazzè e Silvestri. A., quel cd, lo ha comprato. Molto belle, ma quelle canzoni non mi hanno ancora colpito del tutto, devo metabolizzarle, o forse non è mai stato il momento giusto per loro nella mia vita. E quando le canti, noi ragazze ci siamo spostate, volevamo essere più vicine al palco.
Non mi sedevo per terra da così tanto tempo, fregandomene altamente di sporcarmi o meno, dalla Spagna del mio primo Cammino di Santiago.

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Non mi sedevo per terra con così tanta gente da, davvero, non me lo ricordo più. sì, mi ricordo il concerto della Baraldi con gli ex CSI alla Collina dei Poeti a Santarcangelo di Romagna con E., forse perché anche quella volta mi sono sentita viva, o forse perché è dalle serate con meno aspettative che nascono i ricordi migliori, o quelle nelle quali non sai proprio cosa aspettarti, se poi ti aspetti qualcosa. C‘è una fotografia, me l’ha scattata Silvia: eravamo in una piazza a Santiago, o forse su due strade pedonali che si collegavano, avevo le infradito e i piedi letteralmente distrutti. Mi ha scattato quella foto mentre ero seduta per terra, così, per riposarmi, e stare un po’ al sole in quell’agosto galiziano sempre ventoso e freddo. Indossavo la gonna. C., un carissimo amico che era con me in quel primo Cammino, mi deride ancora oggi, cinque anni dopo da allora, per la gonna a pieghe che mi faceva una pellegrina molto fashion, dice lui, con la s trascinata dall’inflessione romagnola.
Come allora, quel sabato. Allo stesso modo, con un’altra gonna, ascoltandoti.
Poi, hai cantato Lasciarsi un giorno a Roma, con la quale mi pare chiudi spesso i concerti.
Ho cantato a squarciagola le tue canzoni come non mi accadeva, mi sembra, da milioni di anni, con quell’ingenuità ritrovata, quel respiro infantile che ho inevitabilmente perso, con quella gioia nel compiere una cosa così semplice. ancora mi riesce incredibile crederlo.
Ho cantato a squarciagola Lasciarsi un giorno a Roma con un trasporto e leggerezza che dimentichiamo di avere quando siamo in mezzo agli altri. Ma in un concerto, è più facile, non sei strano se lo fai, perché lo fanno tutti. E che liberazione cantarla con te, che immensa liberazione…
E non correvo sotto un palco per vedere qualcuno da vicino nemmeno quando giocava van Basten a San Siro. L’ho fatto per te, inconsciamente, quando le altre ragazze, imbarazzandosi, si sono racchiusa sotto il palco, ho preso la mano di A. in un moto di entusiasmo pari a quando una scarica di adrenalina ti percorre le vene e i tuoi arti bruciano di rinnovata e ritrovata vita.
E abbiamo corso. Ed eravamo là sotto. a osservarti, ad applaudirti, per te e con te.
Che meraviglia.
È normale, suppongo, andare a vedere un concerto. Nelle milioni di esistenze, tanti possono raccontare momenti come questo, come tanti di tanti, non è speciale, non è niente di speciale. È comune, è banale, probabilmente, ma per me, è stato tutto. E bellissimo.
La piazza che non riuscivi a vedere per le luci, era gremita.
Quando sedevamo sulle scale, un gruppetto di bambine giocavano e si sedevano per terra, poi, quando hai iniziato a cantare, ti hanno ascoltato, ti hanno guardato in quella bellezza inconsapevole che solo i bambini hanno.
Una coppia si è alzata, come noi, per avvicinarsi. Lui indossava una maglietta a righe, bianca e blu, lei pantaloni con la loffa larghi. Lei gli ha risposto male per qualcosa che lui ha detto.
Una signora anziana con i capelli corti brizzolati, invece, sedeva con la famiglia e aveva un ventaglio. Il marito, per permettere a lei di sedersi comodamente, gli è stato a fianco per terra e lei, ogni tanto, gli appoggiava la mano sulla spalla.
Poi c’erano le fighe di legno, ma quelle ci sono ovunque. C’erano anche e soprattutto sotto il palco, il che ci ha reso possibile mimetizzarci meglio. Ma a te non importano queste cose, la gente è la gente e quella gente, come me, quelle ragazze, erano lì per la tua musica.
E come saresti mancato a me, se avessi smesso di farla, credo di poter dar voce anche a loro, e saresti mancato anche a tutte quelle persone.
Fino a che avrai voglia di raccontarci storie con la musica, fino a che ne sentirai l’esigenza, fino a che ci concederai di condividere con te questi momenti.
Da quel sabato, sei stato la colonna sonora delle mie giornate. Ho ripreso in mano i tuoi cd e li ho ascoltati. Continuamente, alternandoli. Mi hai tenuto compagnia mentre disegnavo in questo luglio di fuoco e mi hai fatto venire voglia di comprare quei pochi che non posseggo ancora.
Sei stato le due del pomeriggio, le quattro quando la china si asciugava, le sei quando scattava l’ora del birrino, le sette quando entravo in doccia.
Sei stato la linea di grafite del soldatino austriaco di schiena che spara a un francese nella copertina del gioco da tavolo, sei stato le tavole del fumetto nuovo, sei stato alcuni articoli che ho scritto per questo blog, sei stato la tempera e l’acquarello sulla tavolozza, ogni pennellata, ogni risciacquo, ogni tappo di tubetto che aprivo e chiudevo, ogni sigaretta alla finestra nelle pause – sigaretta che non gustavo perché canticchiavo le tue canzoni -, ogni accendere e spegnere le lampade sul tavolo da disegno. Istanti, momenti, vita.
Ti prego, continua a cantare per noi, persone che non conoscerai mai, ma che ci sono e alle quali regali qualcosa di più che non semplici canzoni.
Be’, sì. Questa lettera è schifosamente mielosa, lo so, magari anche retorica, no, retorica no, non scrivo storie retoriche io, o almeno sono quel sufficientemente bravina da disegnare fumetti che la raggirano per bene, alla Ronaldhino con i suoi dribbling. mielose sì, lo passo, per altro in perfetto stile Mabel Morri, romantiche, malinconiche.
Ma non smettere. Eegala ancora, e ancora, la tua musica. Ne abbiamo bisogno. Ne ho bisogno. lo so, è infinitamente egoista, ma non ci si stanca mai delle cose belle.
E adesso vado a bere una birra. E a fumare una sigaretta che non gusterò perché starò canticchiando una tua canzone. Ecco.

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