Heaven is a place on earth

La rubrica di calcio sulla rivista Quasi inizia con un pezzo in due parti: questo. Editato, il Play du Jour è qui e qui. Sul blog la versione originale.

L’estate è stata fresca.
Tutto sommato, l’afa che ha caratterizzato le ultime stagioni calde rendendole spesso invivibili si è affacciata qualche giorno a cavallo di giugno e luglio, e poi solo in agosto.
A settembre la pioggia aveva spazzato via anche quelle poche giornate che facevano sembrare estate.
Per cui, quando càpita, è una giornata fresca. Una di quelle nelle quali fa caldo, certo, ma magari a riva tira quel leggero venticello che fa stare bene anche sotto l’ombrellone a leggere. Ma è un’estate strana questa, “un’estate italiana” l’hanno definita, immemori alcuni – meno i giornalisti sportivi – che trent’anni fa, con lo stesso slogan, iniziava il Mondiale di Italia ‘90, giocato proprio in Italia.
Sui social, quel giorno, sembrava di stare in un negozio vintage online: solo ricordi, dai pupazzetti della Nazionale con i punti della IP alla mascotte Ciao talmente brutta da diventare bella per uno scherzo della nostalgia, dagli occhi spiritati di Schillaci all’uscita a farfalle di Zenga su Caniggia.

Disegno, porto avanti il fumetto nuovo il cui secondo volume è ambientato nei primi anni ‘90 e gli accadimenti politici, storici e sociali mi orbitano in testa. Il Mondiale di cui sopra, la Bolognina, l’ultimo congresso del P.C.I. a Rimini, gli uffici della STASI a Berlino assaltati, la ginocchiata di Boban a un poliziotto durante il derby Dinamo Zagabria – Stella Rossa Belgrado che, di fatto, segna l’inizio di quella guerra sui Balcani definita silenziosa che scioccherà l’Europa, o quantomeno me, e i libri e i fumetti che leggevo nella mia costante ricerca e curiosità attraversando tutti i generi, dal giallo alla fantascienza e a tutto ciò che sta nel mezzo, i film e la musica.
Se c’è stato un momento nel quale il mondo ha sfiorato la perfezione era proprio quello, tra la caduta del Muro di Berlino con la speranza che un mondo unito potesse essere migliore e l’inizio di Tangentopoli quando quella stessa speranza si infranse con le monetine lanciate al Raphael e portando al primo vero cambiamento dopo il ventennio fascista che avrebbe poi, di nuovo, affossato il paese: Berlusconi, e il suo partito.
E lo scrivo da milanista, ammirando un Presidente che ha avuto una visionarietà folle per un progetto calcistico che viene celebrato ancora oggi, ma dal quale separo l’uomo, e il politico.

Cerco un film su Raiplay, ho bisogno di atmosfera, ho bisogno di pose, ho bisogno di tornare ai jeans a vita alta, ai giubbotti jeans col pelo sul colletto, alle felpe larghe di due taglie più grandi. Basterebbe affacciarsi alla finestra, ‘che se c’è una cosa che non avrei mai augurato a una tredicenne di oggi sono l’incubo dei jeans mom, a vita alta. Invece sono tornati di moda e le quarantenni ci ricascano, come se l’adolescenza non avesse insegnato niente. Per un caso che non riterrò tale a ripensarci, càpito su Rai Sport. Trasmettono, nella noia estiva limitata e sospesa dalla quarantena da coronavirus, una delle partite che ancora oggi viene ricordata per un gesto tecnico che, insieme alla rete a slalom di Maradona nel Mondiale di Messico 1986 contro l’Inghilterra – il secondo dopo quello della mano de Dios – è stato scelto come gol del secolo: il 2 – 0 di van Basten nella finale di Euro 1988 Olanda – URSS.

Ho di nuovo 12 anni.
Nell’estate del 1988 ho ancora 12 anni, i 13 (“E’ evidente dottore che lei non è mai stato una ragazzina di tredici anni” dice Cecilia Lisbon allo psicologo che cerca di capire il motivo del suo primo, scopriremo poi dei due, tentativi di suicidio, da “Le vergini suicide” di Jeffrey Eugenides) arriveranno a fine anno.
Sono una sprovveduta e sognatrice ragazzina che ha frequentato il ginnasio leggendo Leopardi e chiedendosi domande sulla vita a cui trent’anni dopo non ho ancora dato risposte, per passare all’artistico ‘che è meglio disegnarle, le domande, il calcio è parte integrante della sua vita la cui cameretta è tappezzata di poster del Milan, Belinda Carlisle canta “Heaven is a place on Earth” e quel giorno di luglio quella stessa ragazzina è davanti alle televisione, e l’heaven è l’Olympiastadion di Monaco.
La voce vellutata di Bruno Pizzul mi accompagna nei novanta minuti che seguiranno.
Mi accompagnano un po’ di più, e da tanto.
Ci sono voci che non ci lasciano più e che quando le riascoltiamo ci riportano a quel tempo, nella memoria di anni perduti solo anagraficamente. Per me sono state quelle di Ciotti e Ameri, in anni più recenti di Riccardo Cucchi in radio, come anche i doppiatori dei film degli anni ‘80 e ‘90, per me Pizzul ha scandito gli anni del calcio che ho amato di più nella mia vita. Era la voce di un nonno che ti fa sentire a casa, che ti abbraccia e che ti fa sentire al sicuro. Era la voce del nonno durante le partite trasmesse a 4:3 in televisione e il Televideo come fonte d’informazione principale.

L’Europa del 1988 respira l’aria primaverile della Perestroika di Gorbacev e purtroppo respira anche e ancora le radiazioni di Chernobyl per quanto si cerchi di nasconderle giorno dopo giorno e in Germania Ovest, nazione organizzatrice del torneo, si cullano dolci sogni di riunificazione, ma sono una ragazzina e queste faccende da grandi non mi interessano e non le capisco, anche se la verdura proprio a causa delle radiazioni continuiamo a mangiarla poco o niente, gioco a pallone e disegno, e la politica entrerà da adulta nella vita, presumibilmente, sbagliando, nell’ennesimo tentativo di dare sempre quelle benedette risposte.
I russi sono l’URSS, sono Ivan Drago e il suo “Ti spiezzo in due” al militante reaganiano Rocky, sono sempre i cattivi dei film e sono comunisti che mangiano bambini, sono, soprattutto, la corazzata del generale colonnello Lobanovsky e sono quelli che hanno interrotto il cammino della giovane ed effervescente Nazionale del nuovo Commissario Tecnico Azeglio Vicini da Cesena, allenatore di federazione e formato come tale che ha avuto il merito e l’onere di dare una passata di vernice e lasciare in bacheca Bearzot e i campioni del mondo dell’82 dai quali salva i giovanissimi (Franco Baresi su tutti) e Alessandro Altobelli come unico superstite del campo del Bernabeu.
I russi sono quella bella squadra che negli anni ricorderemo bella perché lo era e perché semplicemente non esiste più, e ai morti, fascisti a parte, li si glorifica più facilmente, perché non possono rispondere, una squadra sgretolata dalla politica e dalla globalizzazione imminente.
Saranno un’altra di quelle indimenticabili squadre che hanno vinto poco e nulla ma sono rimaste nel cuore, come la Jugoslavia del 1990 che di fatto era quella che avrebbe dovuto partecipare all’Euro 1992, dal quale venne esclusa per quella guerra che andava formandosi nel silenzio di un’Europa che doveva ritrovare invece che unione un equilibrio forse dato per scontato. Era dal 1968 che il “Brasile d’Europa” come venivano chiamati gli jugoslavi erano belli e forti, ma questo era il loro destino, un destino inconcludente, quello del detto slavo “Umìrati ulepòti”, “morire nella bellezza”, talmente belli da finire come Narciso.
E’ la Nazionale, quella italiana, che forse mi rappresenta maggiormente. Per quanto quella del 2006 fosse poi la mia contemporanea, di giocatori che avevano la mia età anno più anno meno, quella del 1988 portava con sé quella sensazione che si stava proiettando sul decennio dopo, quella della vita davanti, della generazione, la mia, che doveva essere the new best thing e che invece, due decenni più tardi, avrebbe fallito miseramente con due dei suoi massimi rappresentanti nella politica moderna e classe dirigente formata proprio in quei meravigliosi e colorati ‘90, Matteo Salvini e Matteo Renzi che sono il fallimento, totale, di quella new best thing che doveva conquistare il mondo.

Ho 12 anni ed è quotidiano vedere giocare van Basten e Gullit.
Sono appena arrivati al Milan e hanno vinto lo scudetto, van Basten si è infortunato subito a quella maledetta caviglia e a Gullit è stato riconosciuto pure il Pallone d’Oro. Ecco perché sugli spalti dell’Olympiastadion ci sono bandiera arancioni alternate a quelle del Milan: uno dei prodotti più venduti quell’anno, indossato da succinte veline in perfetto stile berlusconiano, è il cappellino da baseball con le treccine finte alla Gullit attaccate sopra. In arrivo poi, e questo Europeo è la vetrina ideale, il terzo acquisto dell’estate, un altro olandese di nome Frank Rijkaard.
Non potevamo saperlo allora e ora possiamo solo raccontarlo come si raccontano le favole ai nipoti: si stava costruendo una squadra, quella rossonera, che perfino Valentino Mazzola, in co – conduzione con Pizzul come seconda voce, incalzato dal giornalista friulano ammetterà che quei tre sono fenomeni, magari averli dall’altra parte di città, quella nerazzurra. Ci proveranno, ci proverà l’Inter ad avere dei fenomeni olandesi anche loro, dopo i tre tedeschi di quella fine decennio, due che non erano male male, in fondo, Dennis Bergkamp e Wim Jonk che, nonostante la stagione travagliata, una Coppa Uefa la solleveranno al cielo.

Il calcio del 1988 è ancora quello del passaggio dietro al portiere che può prendere il pallone tra le mani, è ancora quello del calcio d’inizio col tocco in avanti, è ancora quello delle maniche lunghe dei portieri anche in estate e dei cuscinetti sui gomiti, è quello dei pantaloncini inguinali, è quello nel quale il merchandising non è ancora importantissimo per cui il pallone, per esempio, è una riedizione di un modello fedele a se stesso dal 1978 e lo sarebbe stato fino al nuovo millennio previa qualche declinazione di grafica, è quello degli scarpini neri le cui icone sono le Adidas Copa Mondial e le Puma King – le scarpe di Pelè, Crujiff e Maradona – con le loro linguette che venivano racchiuse dai lacci o gli stessi legati intorno alla caviglia, è quello dei numeri dall’1 all’11 senza nomi sulle magliette, è quello del braccio alzato di Franco Baresi per avvisare di un fuorigioco.
E’ un calcio che amo alla follia.

A Monaco di Baviera, nello stadio che all’epoca si chiamava Olympiastadion, la giornata è nuvolosa e grigia. Non minaccia pioggia, è la classica giornata che in quegli anni ci si aspetta dal nord Europa, o almeno dall’Europa oltre le Alpi: temperature secche e miti, le cui massime difficilmente superano i 25 gradi.
L’Olympiastadion è una culla ricavata dentro una collina: per arrivarci c’è un lungo viale che porta poi alle varie entrate. In quello stadio non vedrò dal vivo questa finale, ma un’altra, l’ultima di van Basten giocatore. E’ uno stadio moderno e bellissimo, sa di Europa e di grandi partite, coperto per gran parte da una struttura di vetro e ferro che sembra gonfiato come una mongolfiera, che non è scontato per gli stadi di quell’epoca, abituati noi italiani a stadi all’aperto, alla pioggia e al vento nella sofferenza di seguire la propria squadra. E’ una zona completamente riqualificata di Monaco, una delle prime intese architettonicamente non solo come stadio ma quartiere: ha un laghetto artificiale a fianco, ha parcheggi ampi, ha queste lingue di asfalto in mezzo al verde dei giardini. E’ accessibile, la gente la vive come un parco e il comune organizza eventi vari. Quando, un lustro dopo, quelle stradine le percorrerò, vedrò tutto questo, alzerò gli occhi al cielo e vedrò la copertura di vetro e ferro, vedrò anche la quadratura tedesca, non una cartaccia in terra, non pozzanghere e crepe nelle stradine, non un qualcosa fuori posto. Quasi irritante.

Ho di nuovo 44 anni.
Non ho più il ghiacciolo all’arancia in mano, mastico un paio di mandorle e mi rinfresco con una birra e la partita è quell’atmosfera che mi serve per il fumetto nuovo. Non è stato previsto appaia, ma non si sa mai.
Ho di nuovo 44 anni e il quotidiano sono diventate partite di giocatori che sono atleti completi, dai muscoli gonfi e massicci. E scopro che mi mancano terribilmente le treccine di Gullit, la sua falcata fluida, l’esplosività della sua corsa, la sua danza di finte e scatti prima di decidere se verticalizzare o passare lateralmente il pallone.
Quando inquadrano van Basten mi commuovo. Indossa il numero 12, è un ragazzo giovanissimo, sono tutti giovani e dai fisici degli uomini dell’epoca, filiformi e asciutti, tanto che sono i fisici alla Maradona spesso a stonare.
Me lo godo nelle inquadrature, mi riempio gli occhi del suo modo di correre, le mani mai del tutto a pugno, il modo in cui si volta per osservare il difensore, il modo in cui dribbla trascinando la gamba e il pallone, il modo in cui si oppone al portiere nel lancio lungo alzando quella gamba che sembra una gru. E’ lo stesso con cui mi modificavo anche io quando giocavo, ne assorbivo ogni movimento, provavo a rifarlo fino a quando non era come il suo, come il saltello prima di un calcio di rigore. Ha un cerotto sul sopracciglio sinistro ed è concentrato. Ha tutta la vita davanti e la carriera esplode in quell’Europeo che, se fosse una sceneggiatura la definiremmo “circolare”, inizia come finisce, con la stessa partita d’esordio nei gironi per Olanda e U.R.S.S. Ma la prima finisce 1 – 0 per i sovietici perché li si chiamava così, era uso comune chiamarli così oggi che non si fa più, erano l’Unione Sovietica e i russi era un termine quasi spregiativo all’epoca.
In quell’esordio van Basten è in panchina, proviene da una stagione nella quale è stato più infortunato che altro ma Rinus Michels, allenatore delle finali Mondiali del 1974 e del 1978, allenatore che ha inventato il “calcio totale” (“Veramente è un termine che avete inventato voi” disse un giorno a un giornalista perché per lui era solo un’idea di calcio da fondere nella testa dei giocatori), dopo averlo lasciato in panchina per tre quarti di quella partita, lo fa esordire e non lo toglie più. van Basten e quell’Olanda regalano spettacolo, i tifosi milanisti gongolano e le reti del Cigno di Utrecht trascinano gli olandesi in finale.
La bella Nazionale di Vicini si infrange nella pioggia battente e nelle occasioni sbagliate di Vialli contro il muro macchinoso sovietico in semifinale perdendo 2 – 0, ma l’U.R.S.S. ne esce sfibrata mentalmente e fisicamente, con uomini ammoniti e infortunati che salteranno la finale.
Gli Oranje invece vincono in semifinale un’altra partita non facile, carica anch’essa di significati che trascendono il rettangolo di gioco e di situazioni di guerra mai del tutto dimenticate, come l’onta dell’invasione nazista e i successivi furti di biciclette da parte dei tedeschi.

Ho di nuovo 44 anni e scopro che la partita la conosco a memoria. Forse i filmati negli anni, forse l’amore per quei momenti che me la resero indimenticabile, ma quando i difensori sovietici ribattono fuori dall’area un cross olandese che finisce sui piedi del numero 7 Vanenburg, il Donadoni oranje simile anche nella capigliatura, mentre Gullit danza avanti e indietro a centro area, anticipo Pizzul e bisbiglio “Eccolo”: Vanenburg crossa, van Basten migliora e Gullit sempre di testa supera Dasaev. E’ 1 – 0 per l’Olanda.
La voce di Pizzul è una musica dolce che nel suo “Tutto molto bello” porta con sé ricordi e sapore di Big Babol.
Quando l’U.R.S.S. prende un palo e sbaglia un rigore nel secondo tempo per il possibile 2 – 1, van Basten ha già segnato l’arcobaleno che lo consacrerà nella leggenda.
Ne diventerà un modo di dire, lo è ancora oggi, con gol alla van Basten si intende sempre e solo questo arcobaleno.
Persino Pizzul è evidentemente sorpreso nell’annunciare la rete del 2 – 0 raccontando quell’incredibile gesto tecnico nato da un passaggio di van Tiggelen a Mueren che avanza sulla sinistra e decide in un traversone troppo lungo, che non sembra ideale per un colpo di testa e nemmeno per una rovesciata, è a metà strada da tutto, tanto che Dasaev calcola l’uscita salvo poi fare due passi indietro, è buono solo per quello che invece farà van Basten: coordinarsi, calciare di destro al volo un tiro non particolarmente né forte né debole ma preciso, nell’altro lato della porta dove Dasaev non potrà mai arrivarci.
Il braccio destro alzato per festeggiare la rete diventerà talmente comune che diventerà anche il mio, sarà un codice che i tifosi milanisti daranno per scontato, e sarà lo stesso con cui, vestito di una camicia rosa e una giacca di renna, saluterà il pubblico nel suo addio al calcio nell’agosto del 1995 dopo due anni di tentativi per tornare in forma dopo l’ennesima operazione alla caviglia.
van Basten è ancora attorniato dai compagni, sorride ed è incredulo pure lui del suo gesto, e sembra impossibile pensare in quel momento che da quel felice pomeriggio di luglio avrà solo appena altri cinque anni di carriera. Sembra impossibile pensare che nel maggio del 1993, un lustro dopo, io sarò in quello stesso stadio a vedere Olympique Marsiglia – Milan, e che van Basten giocherà la sua ultima finale.
E’ l’ottantanovesimo minuto e Pizzul annuncia l’Olanda Campione d’Europa.
Le immagini scorrono sui festeggiamenti degli olandesi e sulla sfilata delle medaglie, quegli attimi di felicità e rilassatezza.
Io ne assaporo ogni fotogramma: conosco tutto quel mondo, quel contesto l’ho vissuto, io c’ero.

Rieccheggia in qualche anfratto della memoria Belinda Carlisle che canta ancora, in loop, Heaven is a place on earth, e come le canzoni di quel tempo che scemano sul finale si spegne lentamente, molto lentamente.
Per un attimo corrono veloci un tripudio di pensieri, occasioni, possibilità ed eventi oggettivi, come un filmato mandato avanti col REC, penso a come sono andate le cose, penso alle risposte alle mie domande, alle interviste a van Basten trent’anni dopo quella rete, sulla depressione che gli venne e alle stampelle con cui ha convissuto fino a un paio d’anni fa, prima di una drastica ennesima e definitiva operazione che gli ha risolto per sempre i dolori.
Penso che se non ci sono risposte sensate anche se da qualche parte l’heaven continua a esserci perché Belinda canta ancora, forse una c’è, una da Guida galattica per autostoppisti per una domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto.
L’unica possibile.
42.

Say Something

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.