Un ricordo di Marco Pantani, a 14 anni di distanza dalla sua scomparsa.
La notte era fredda, e umida.
Lavoravo allo “Spazi” rinnovato di metà anni 2000.
Avevo la Vespa, fumavo, pesavo 50 chili e non ricordo dove stesso andando dopo il lavoro.
Il gerente dello “Spazi” pre e post Carlini è un imprenditore di Roma, spostatosi in Romagna non ricordo più se per matrimonio o affari, ma risiedeva al Residence Le Rose. Tanto è vero che sfrecciando, e poi rallentando per la polizia e l’ambulanza su Viale Regina Elena, parallela del lungomare di Rimini, pensai che potesse essere accaduto qualcosa a Cesare. Ma no, era impossibile, avevamo chiuso insieme e lui si era fermato con un amico cliente.
Cosa stava succedendo lì dentro?
Ricordo il nulla intorno, il silenzio di una Rimini addormentata e umida, dalla strada bagnaticcia, gli alberghi chiusi per l’inverno e le poche tapparelle degli abitanti abbassate e spente.
Sembrava che qualunque cosa fosse accaduta, era qualcosa che necessitava di silenzio, di bisbigli, di far sapere il meno possibile.
Quando passai io, lì sotto, davanti al Residence Le Rose, non c’erano ancora i giornalisti.
E anche dopo non ci fu mai la ressa.
Marco Pantani moriva in quel residence.
Io, una riminese qualunque col suo motorino, passava di lì, senza immaginare ciò che avrei letto il giorno dopo sul giornale.
Ho sempre pensato che in un qualche modo, passare lì davanti a episodio praticamente fresco, fosse una strana forma di saluto, inconsapevole, postuma.
Non so perché certi episodi rimangano nella mente, non so perché a distanza di anni posso raccontare che la strada era bagnata e le luci dell’ambulanza spente, non so perché racchiusi negli occhi e nella memoria questi dettagli. Non lo so.
Ma so che io, uno come Il Pirata Marco Pantani da Cesenatico, non l’ho più visto su una bicicletta.
Cosa c’è di meglio che volersi, cosa può sembrare bello se si è se stessi, con la gioia nei pedali e nei sorrisi. Tutto ciò dovrebbe bastare al mondo è chi è da sola, solo. Ma l’inverosimile sentenza ancora scuote le cose, quella del disprezzo che anche per Pantani nacque senza stupire, appunto una persona tra tante che vuoi che sia un po’ mentirci un poco parlare. Ciò rende fuori di testa molta gente che non sa più bene cosa prova e forse combina, per una ragione d’essere inverosimile, appunto. Se si comincia a disprezzare la bellezza e l’onestà come fu anche per Marco, si inizia a disprezzare se stessi, ma anche il bene ch’è in Dio nell’amore senza accorgersene – ciò avviene ancora in luoghi paradossali e inverosimili – dà modo ad arbitri di regola come fossero veri nell’affermazione di un io che disprezza la persona e l’essere, sembra che quasi lo giustizia. Marco mi piaceva perche quando lo guardavo pedalare, faceva quello che pensavo nel momento che volevo e soltanto lui riusciva a farlo pedalando in quel momento io seduto a guardarlo. Una volta scrissi a Cannavò in forma un po’ poetica per dire a Pantani che bastava così ciò che aveva fatto eccezionale e quello accaduto inverosimile, se lo avesse letto nel suo carattere avrebbe sicuramente reagito in bicicletta. Ma non andò a Tour de France, non per suo demerito. Poi come ò detto accadono cose inverosimili come fu la pizza di Pantani. Grazie per questo suo ricordo, molto bello.
Patrizio Marozzi