nel giorno in cui sarà trascorso un mese esatto da QUEL 7 gennaio 2015, il wow spazio fumetto di milano organizza una mostra per celebrare il giornale satirico francese “charlie hebdo”, colpito ferocemente e dimezzato nelle sue unità nel cuore della sua redazione e della francia dalla pazzia di due folli le cui esistenze inutili trovavano altrettanta inutilità spacciandosi per voce e braccio di una religione e di un dio che, come ogni cosa non tangibile su questa terra, è assolutamente opinabile.
è domenica 11 gennaio quando mi arriva la mail di proposta di partecipazione, la domenica in cui tutto il mondo segue la diretta da parigi che per un giorno diventa il centro del mondo, la cui marcia per la pace porta anche i leader politici di mezzo mondo in corteo tra la gente unendosi nel cordoglio di una ferita ancora aperta.
quando inizio a scrivere questo articolo, questa ferita non è solo ancora aperta ma il sangue versato non si è nemmeno ancora asciugato. è stata una settimana terribile per i francesi e per la francia, dal 7 gennaio fino al 10 la bella parigi è stata colpita più volte lasciando morti e paura.
paura che, come spesso accade, provoca o psicosi oppure una totale confusione e un mondo tipo post torre di babele con un vallo di gente che dice la sua senza capirsi nonostante si parli la stessa lingua oppure una fortificazione delle proprie idee. così è stato per i sopravvissuti di “charlie hebdo” che non solo hanno continuato a esistere ma si sono resi più forti, moralmente ed economicamente. moralmente perché mai come in questo momento possono concedersi il lusso di essere ancora più dissacranti, cattivi e volgari ed economicamente perché il mondo si è mosso per aiutarlo in nome della libertà d’espressione.
e la risposta è stata anche questa ed è stata LA RISPOSTA, l’unica possibile: l’andare avanti. già qualche giorno dopo il 7 gennaio, viene annunciato che il giornale sarebbe stato regolarmente in edicola con una tiratura record e che però non sarebbe stato celebrativo o pubblicato nel ricordo di chi non c’era più.
anche se mi domando: un giornale come “charlie hebdo” se non fosse accaduto ciò che è accaduto sarebbe arrivato alla tiratura record di un milione di copie, esaurito in poche ore dall’arrivo nelle edicole e portato in italia anche dal fatto quotidiano con altrettanto successo?
probabilmente no. la qual cosa è peraltro di futile importanza.
“charlie hebdo” vive. e questa è l’unica cosa che importa.
“charlie hebdo” non tanto come giornale ma come spirito.
“charlie hebdo” come simbolo di quella libertà d’espressione che, sì, fa anche male, magari è stupida, magari ti fa partire l’embolo e chiudere la vena, magari invece ti fa ridere.
ho ancora negli occhi la tour eiffel che l’8 gennaio 2015 alle ore 20 viene spenta troneggiando nella sua struttura metallica privata di quell’effetto scenico che te la fa ammirare anche da lontano. parigi senza la tour eiffel illuminata è come lo skyline di manhattan senza le torri gemelle. e quanto un simbolo di una città può essere forte nella percezione che si ha di quel luogo.
ho ancora negli occhi la bella parigi ferita come non l’avevo mai vista, la bella regina sfregiata nel suo cuore. ma come tutte le regine forti, si alzano e a modo loro combattono. parigi è come virna lisi, più invecchia più è bella e non sfiorirà mai, anche se colpita.
penso ancora. chi, a un mese di distanza, si ricorda della tensione fomentata anche in italia, chi ancora usa l’hashtag #jesuischarlie, chi ha provato e/o prova la sensazione che c’è un mondo prima e dopo “charlie hebdo”?
giovedì 8 gennaio mentre fumavo una delle mie sigarette catartiche e mentre parigi era nella morsa di quei folli, osservavo dallo studio un padre che seguiva il figlio portandogli il suo zaino sulla spalla. il bambino dal cui giubbotto spuntavano le falde del grembiulino blu camminava tranquillo, guardando in giro e con la mente sospesa in chissà quali giochi immaginari. il padre fumava, curvo, perso a sua volta in pensieri forse più materiali e quotidiani. tutta la scena non aveva nulla di francese. e come me che fumavo, la vita continuava esattamente come prima per ognuno di noi che, per quanto vicina geograficamente la francia, la si osservava e ci si dispiaceva da lontano.
la vita, in quel primo fine settimana dopo quei tre giorni di panico, continuava con il campionato e quegli idioti di tifosi che si picchiavano fuori dallo stadio dopo il derby roma – lazio, con le accuse di un napoli sempre troppo generoso e gentile come benitez contro una juve oggettivamente cinica, e io per prima avevo un occhio sui due milioni che affollavano le vie di parigi e con l’altro mi sparavo il derby, un paio di partite della liga e napoli – juve la sera.
la vita, per tutti, come dopo ogni morto, non si fermava nemmeno per pensare.
io invece ci ho pensato spesso in quel fine settimana.
quando saremo tornati a sorridere? mi chiedevo, perché a me ha lasciato un segno inaspettato.
io non cambierò il mondo, non scriverò o farò robe nella mia vita che lasceranno il segno, nel mio piccolo posso solo lottare per ciò in cui credo e farlo disegnando con quel talento che mi è stato donato e che non sempre è sinonimo di successo, nel mio piccolo insignificante piccolo agli occhi dell’universo posso solo dare invece un senso tutto mio.
ho sempre amato una corrente artistica che fin in giovane età lacerò il mio animo e mi rese consapevole di quanto poco si possa fare di fronte ai grandi eventi della vita: il romanticismo tedesco.
il movimento artistico di metà ottocento ha diverse sfaccettature e in ogni paese ce n’è una sua idea, realista quanto simbolica. per me studiare caspar david friedrich fu una rivelazione perché dimostrava la finitezza umana e l’animo tumultuoso, le passioni potenti e struggenti nei confronti della grandezza della natura. ci sono cose più grandi di noi e che non si possono sconfiggere. le si può vivere nella consapevolezza che esistono e che, la stragrande maggioranza delle volte, si è totalmente impotenti.
e dimostrava però la libertà di poterlo pensare.
il mondo dopo “charlie hebdo” aveva coniato un nuovo termine di unione, quell’hashtag #jesuischarlie dal quale molti si sono dissociati (e in pochissimi casi con un’argomentazione valida e una prospettiva diversa e ragionata tipo nel podcast “tizzoni d’inferno” di tito farai con ospite diego cajelli). oggi #jesuischarlie ha un significato ben preciso, sottile evidentemente, ma profondo. essere charlie significa continuare a essere liberi, liberi di poter dire la propria, liberi di essere liberi.
o almeno questo è il significato che gli ho dato io.
e l’essere libera mi concede il lusso di partecipare alla mostra dello spazio wow! fumetto che inaugura il 7 febbraio 2015.
l’essere libera mi concede il lusso di scrivere questo blog e di poter dire la mia.
l’essere libera ci consente il lusso di vivere respirando.
nulla è scontato in questa vita e, francamente, ogni giorno che mi viene regalato anche se non è stato buono e anche se ho un male alla schiena da bestemmie, sono libera.
e sono libera di pensare ciò che voglio.
la mostra non cambia la Storia, ma nel piccolissimo microcosmo nel quale vivo mi concedo il lusso libertario di far sentire la mia voce con un disegno.
l’illustrazione è quella che vedete all’inizio di questo post, se non riuscite a passare e a vedere anche quelle di tanti altri colleghi.
illustrazione che per altro realizzo molto dopo il 7 gennaio la qual cosa mi permette anche di non essere invischiata nella burrasca del “corriere della sera”, reo di aver estrapolato da qualunque fonte (social e affini) e usato senza consenso gli omaggi dei colleghi e di averci fatto un libro allegato al giornale in edicola il 15 gennaio.
seguo la bufera scatenata in rete e mi sento tipo rinfrancata dopo aver rischiato di correre un pericolo. l’unica cosa che ho fatto nel nuovo mondo del dopo charlie hebdo è scrivere un articolo sul blog scattando una foto alla cazzo delle matite (oggi simbolo della strage) che avevo sulla scrivania per fare prima perché un disegno avrebbe posticipato l’uscita di ciò che avevo scritto e in me era urgente e prepotente far sentire la mia voce, egoisticamente.
mi sono domandata perché non abbia avuto lo stimolo di disegnare qualcosa come molti stavano facendo e che, al contrario, abbia preferito scrivere. e l’unica risposta che mi sono data è che di parole se ne stavano dicendo tante e le mie sarebbero state altre che sarebbero scivolate e dimenticate; un disegno invece proprio per la potenza che ha forse avrebbe avuto più significato ma non mi sono sentita degna. per rispetto, forse. o perché ero ancora sgomenta dai fatti accaduti. o forse non disegnare era un altro mio modo per archiviare in me l’evento che è impossibile dimenticare. ci sono persone, io tra queste, che hanno la capacità di immagazzinare immediatamente ciò che di brutto avviene e chiuderlo a chiave in un proprio cassetto interno per non aprirlo mai più. e di alzare la testa e andare avanti. tipo chi mi fa del male, per me non esiste più, semplicemente. lo elimino da me stessa. può anche morirmi davanti ma io non alzo un dito per aiutarlo. non c’è pietà, non c’è indulgenza. è atroce, lo so. ma è dalle persone più sensibili che spesso viene fuori una disumanità inimmaginabile. ovviamente, il loro morire non è fisico, è una morte di coscienza, una morte nella vita come a guardarsi bene dentro ce ne sono tante. osservare il loro disgregarsi lento delle certezze, il loro vuoto incolmabile che li rendeva poveri e in gabbia, il loro fallimento totale in esistenze che per le possibilità che avevano li portava a un successo naturale, il loro non riuscire più a guardare altre persone negli occhi per la vergogna profonda che inceneriva le loro anime.
mi è capitato. loro provano a guardarmi un attimo, ma poi lo abbassano subito. anche perché li fulmino.
e non so perché ma dopo charlie non ci sono riuscita. quel cassetto è talmente aperto che finirà come la mia scrivania, una lavatrice esplosa di oggetti in disordine che campeggiano bellamente alla faccia del dio ordine e uno spazio davvero esiguo lasciato libero per i fogli da disegno.
a tutt’oggi non mi sento degna. anche se l’ho disegnato. una parte di me si diceva: se disegni arroghi il diritto che sei viva, attesti e ostenti la fortuna che hai dell’essere ancora viva e poter continuare a disegnare. c’è chi non può più farlo. è contorto come pensiero, me ne rendo conto ma preferivo il silenzio artistico.
e il mio omaggio l’ho fatto, perché poi è scattata un’altra cosa: il ricordo.
contraddicendomi. voglio davvero dimenticare? voglio davvero non ricordarmi il sole di quel 7 gennaio che entrava dalla finestra del mio studio, dopo aver bevuto il secondo caffè e dare una sbirciata a facebook e interessarmi al link che l’amica lorenza ghinelli, una delle prime tra i miei contatti, aveva postato e poi condiviso da tutti?
no perché io il mio 11 settembre 2001 me lo ricordo come fosse ieri.
era il settembre di un’estate qualunque a rimini, c’era il sole e tirava un vento della madonna sulla spiaggia. lo so perché c’ero stata per salutare un mio amico, ivan, che era in vacanza lì in quei giorni. la spiaggia era già stata smantellata da ombrelloni e lettini, ne rimanevano solitarie solo le passerelle. magrissima come molti anni da lì a praticamente alla fine del 2013, indossavo una di quelle felpe di pile con il cappuccio e la cerniera che vendevano molto in quel periodo, c’era anche rossa, colore che andò molto. tornai a casa che c’era ancora il sole. la mamma stirava in cucina e in tv stava seguendo uno speciale di canale5 nel quale lavorava ancora enrico mentana e la cui voce descriveva gli accadimenti. la mamma mi disse: hai visto cosa è successo in america? e io: no. certo, poi mi chiese se volevo il tè, una di quelle cose che adesso che ne non sento più la sua voce mi manca terribilmente ma è una cosa nostra. e rimasi con lei, mentre stirava e bevevo il tè. la luce del sole mentre tramontava, le piastrelle della cucina bagnate da quella luce il cui pulviscolo elettrico del ferro da stiro rendeva tangibile, i miei jeans chiari, la tazza del tè che è ancora oggi quello in cui lo bevo ogni mattina.
ho mai avuto modo di dimenticarlo?
no.
quanti oggi si sentono ancora charlie?
quanti si ricordano di charlie?
il mondo dopo charlie ha visto le più obbrobriose manifestazioni di bassezza umane, di ipocrisia e di retorica che, francamente, mi ha disgustato.
il mondo dopo charlie ha creato una confusione sul concetto di libertà (e di espressione) che sta sfiorando il ridicolo portandomi davvero a pensare che non c’è scampo. non c’è speranza. non c’è possibilità che la gente migliori. per non parlare dell’intelligenza che sta diventando un optional di lusso nel quale non servono i soldi per averla.
pensavo che il mondo dopo charlie mi avesse fortificata. lo ha fatto in parte.
lo sto ancora osservando e ne vedo le sottili trasformazioni. piano piano si sta tornando al nulla di sempre, alle lotte fittizie di sempre, alla noia del genere umano di sempre.
avevo scritto alcuni articoli di cui ero anche orgogliosa, demenziali come mi riesce quando ho il cervello in stand-by domenicale, poi è successo charlie il 7 gennaio. e tutto era cambiato. niente più risate, niente più spensieratezza, niente più sole.
poi è arrivato il 14 gennaio, “charlie hebdo” ha avuto una tiratura di cinque milioni, passando dal primo iniziale che già a metà mattina era esaurito nel mondo e sospettando che tre bastassero, sbagliando. è arrivato poi a sette milioni nel mondo.
poi è arrivato il 15 e la faccenda “corriere della sera”.
e qui, ho capito che si stava già dimenticando, che non ci si sentiva più charlie.
ho anche tirato un sospiro di sollievo perché forse quel cassetto riuscivo a chiuderlo. ma non era nemmeno questo che poteva darmi sollievo. al contrario charlie stava diventando un mezzo per creare ancora più confusione. quando poi il direttore del corriere della sera, de bortoli, incalzato da paolo campana di bloggokin.it in un’intervista presumibilmente chiarificatrice ha asserito che siamo andati un po’ di corsa, è un instant book e andava fatto adesso. fra un mese a nessuno interesserà un libro del genere. una parte di me è crollata e un’altra faceva quel sospiro.
fra un mese non interesserà più a nessuno.
fra un mese non interesserà più a nessuno.
fra un mese non interesserà più a nessuno.
me la sono ripetuta come una litania ossessiva.
tra un mese di charlie hebdo non ci importerà più nulla.
sì, è vero, si è tornati a interessarsi delle cose di sempre. ed è onesto che sia così. e intanto si viene anche a conoscenza di ciò che è accaduto per davvero di “quella” faccenda.
ma io faccio una fatica della madonna a dimenticare. e, francamente, non lo voglio nemmeno fare. e sembrerebbe che anche altri non stiano dimenticando. in francia, durante l’ultimo angouleme, il festival di fumetti più importante in europa, una coalizione di editori ha pubblicato un volume celebrativo. dalle immagini sembra di buona fattura e di qualità, come spesso ci hanno abituato oltralpe. certo, se la ragioniamo a livello di commerciabilità, presentarla ad angouleme era il top considerato anche il “premio charlie hebdo” per la libertà di espressione, istituito recentemente dagli organizzatori del festival. e si intuisce che non è proprio intenzione dei francesi “sbattersene”. che è anche il titolo di un articolo moooooolto interessante scritto da boris battaglia e che credo racchiuda tanto e che vi consiglio vivamente di leggere qui. e mentre questa vita va avanti, il giornale “charlie hebdo” annuncia una sospensione delle pubblicazioni di almeno due settimane: ancora troppo vivo ciò che è accaduto, ancora troppa attenzione intorno a loro, ancora troppo difficile tornare a quello al quale siamo tranquillamente tornati noi. e sul web si scatena la “faccenda topolino” e la copertina cambiata all’ultimo.
vorrei non dimenticare mai niente, perché anche i ricordi brutti hanno un senso.
ecco perché dopo un mese esatto, bambini di tutto il mondo, siccome ce ne siamo dimenticati, io espongo con altri colleghi dal 7 al 15 febbraio 2015 al wow spazio fumetto di milano.