La figurina di Franco Baresi

Tra agosto e settembre ho rimesso mano alla mia vita, l’ho chiusa nei cartoni e l’ho spostata di nuovo.
Ma spostare significa trovare.
In questi casi, ritrovare: se stessi, i propri sogni, la propria infanzia, e farne un punto su chi e cosa sono diventata.
E ho ritrovato una figurina di Franco Baresi.
Trasloco 00.

Era impolverata, stesa prona sotto la libreria di metallo appena spostata per pitturare il muro.
Non ricordavo nemmeno di averla, e mi sfugge completamente da dove sia scivolata.
È un segno del destino?
È foriero di altri significati oltre quelli calcistici?
È che il Milan ha perso 4 – 1 con la Lazio evidenziando una difesa ancora non al meglio nei meccanismi – e sono dieci anni che si rimpiange Santo Franco Baresi -?
Franco, cosa mi vuoi dire da sotto quegli occhi accigliati?
Lo sguardo è quello che generazioni di milanisti ricordano: uno sguardo che inchioda, indefinibile, corrucciato sotto il peso della concentrazione, e come nel caso della foto di questa figurina, sotto la luce di un sole estivo.
La maglia è quella della Kappa, l’ultima con Kappa come sponsor tecnico, quella della stagione 1989 – 90 perché poi, nella stagione 1990 -91, il Milan inizierà la prima delle due collaborazioni con Adidas (con la italiana Lotto ci sarà una parentesi dal 1993 al 1998) e sarà presentata nuovamente la Coppa dei Campioni al posto dello scudetto o della coccarda tricolore della Coppa Italia.
Fu un vezzo, quello del simbolo della Coppa Campioni vinta, di Berlusconi; per tre stagioni il Milan degli Invincibili non fu sempre invincibile in italia (ma c’era il Napoli di Maradona, l’Inter di Trapattoni e di Klinsmann, Matthaus e Brehme, e la Sampdoria di Mantovani con Vujadin Boskov e i gemelli del gol Vialli – Mancini), così, incapace di vedere quella maglia senza trofei da sfoggiare impose la Coppa Campioni sotto la stella.
Franco, cosa mi stai dicendo sotto quelle sopracciglia corrucciate?
Sei arrabbiato con me per averti dimenticato (e perso) sotto una libreria?
È perché ti ho sempre preferito van Basten?
È che il perderti avrebbe potuto essere una possibilità. Le figurine di van Basten, lo sai, sono o conservate o attaccate da qualche parte, come nella scatola dei colori della Caran d’Ache che mi porto dietro dai tempi del liceo, quella che quando la si apre ci sono le tre belle facce sorridenti di van Basten, Gullit e Rijkaard.
E poi se ce l’hai con me perché avevo la maglia con il numero 6 sulle spalle, quella volta in partita, su quel campo spelacchiato vicino al Parco Marecchia, non è colpa mia: l’allenatore non aveva nessuno in difesa e ha arretrato me, che potevo giocare anche a centrocampo e non solo sulla fascia, e mi ha dato il 6. Gli dicevo di no?
Sii serio.
A Sacchi gli rispondevi, tu?
Dai Franco, parliamone.
Sai quel ritornello per cui se si inizia a pensare a una cosa quella si palesa in varie forme?, ecco, non mi pare il caso, e il Milan che perde 4 – 1 con la Lazio, forse, dico forse, è un ammonimento a lavorare meglio sulla difesa. Ma questo, non c’entra con noi, questo è un problema di Montella, è pappa per i giornalisti di SkySport24, o per quelli sportivi in generale. Non è roba per noi. Sul campo non ci stiamo più, ci siamo spostati su altri campi, meno fangosi e meno verdi.
Franco, mi vuoi forse dire di non dimenticare i miei sogni di bambina?
Non li lascio andare i miei sogni, al contrario, sto cercando di renderli reali ogni giorno, scervellandomi.
Non li lascio andare comunque, anche se spesso è difficile.
Quando c’eri tu che giocavi, c’era anche van Basten. Ma tu sei sempre stato uno serio, mai uno scandalo (va be’, quella roba che tuo figlio era di Rijkaard è stata una cattiveria, intesa come venne dipinta in quegli anni, da gossip orrendo di un tradimento sotto il naso; e poi in ogni caso era una questione privata, se anche fosse stato che non potevi avere figli e tu e Maura avete pensato all’inseminazione e quelli di Rijkaard rientravano nella vostra scelta, che problema c’era? ma alla cattiveria e all’infamia non c’è mai fine), mai un sorriso fuori posto, e poi quelle lacrime a USA ’94… e chi ti aveva mai visto piangere fino ad allora?
Franco, cosa mi vuoi dire davvero?
Lo sai anche tu, rimanere troppo legati al passato fa male, soprattutto se si gioca come domenica. Mettici anche che Ciro Immobile è in un periodo di forma notevole, moralmente e fisicamente, e farne tre a Donnarumma è pure poco, per come sgusciava ovunque (chiedere a Bonucci nel caso). Mettici che il Milan per quel poco che si è visto fino a ora sembrava avesse già lo scudetto cucito sulla maglia a sentire tifosi e giornalisti e, a classifica aggiornata a lunedì 11 settembre (sì, lo so, data nefasta nei ricordi del mondo), è di nuovo settimo. Di nuovo, sottolineo. Mettici che questi sembrano bravi ragazzi, giocatori degli anni 2010 con i capelli laccati e rasati intorno alla testa, con i tatuaggi e profili social Instagram e Twitter in uso continuo, ma che a diventare uomini, o Capitani come te, ne passa di acqua sotto i ponti.
Sorridi dalla tribuna, in mezzo ai cinesi proprietari.
Ti si vede finalmente sorridere rilassato. E a volte, c’è anche Filippo Galli con te, a fianco come una volta quando giocavate nella difesa a quattro.
Sorridi per altro, e non solo per qualche coppetta alzata al cielo.

È una domenica di pioggia, quella che vedo alzate le tapparelle di casa.
La casa è ancora quella vecchia, quella di Montemarciano, ancora per due settimane.
Siamo senza tende, io e Ila, gli studi sono diventati magazzini e, contestualmente al lavoro (io mi sono fermata, riprenderò a disegnare nello studio della casa nuova), siamo a un buon punto con il trasloco.
Mentre mia mamma filma dal balcone la pioggia riminese canticchiando “Singing in the rain” e mi invia il video su Whatapp, io bevo il caffè sfogliando Repubblica.it e leggendo dell’alluvione a Livorno e dell’uragano Irma negli Stati Uniti, entrambi devastanti e distruttivi.
Non riesco a sorridere, nemmeno un po’, e il caffè si raffredda veloce adesso che la temperatura si è abbassata.
Con la prima pioggia, quella che spezza l’estate nella sua terza fase della stagione – la prima caldissima e afosa, e improvvisa cioè che arriva e a sua volta spezza la primavera; la seconda fresca, magari con il brutto tempo (come giugno 2017) e poi di nuovo afosissima; la terza, quella di settembre, malinconica e definitiva – che con la pioggia sancisce appunto definitivamente la sua fine, quella che si guarda fuori dalla finestra e si sa già che si possono mettere via nell’armadio il costume da bagno e il telo, del caldo da spiaggia che non tornerà fino all’anno prossimo.
L’accettazione, lo sbuffo e, se si è malinconici come me, la bocca un po’ storta e dispiaciuta.
Ieri le ragazze sono state fuori. V. e S. con O. a guinzaglio, in gita a Urbino, A. invece si godeva l’ultimo sole caldo a Portonovo, dalla parte del Clandestino. Io e Ila abbiamo pitturato la cucina, bianche di calce grattata via dallo stucco e siamo rimaste con la sensazione di polvere nelle narici. Le ho invidiate un po’, le ragazze, poi ho pensato a quando saremo nella casa nuova, con il giardino, il mare e la città a due passi, una dimensione migliore per due quarantenni invece di un paesino grazioso – al quale io devo molto – ma che va bene magari per persone più in là con gli anni, diciamo. Poi ho pensato che la mia mente stava già viaggiando, mi venivano in mente situazioni, dialoghi, sconclusionati evidentemente ma chissà magari utili un giorno, e poi ho pensato che avevo una gran voglia di disegnare ma ho messo via tutto (TUTTO!) e non trovo più nemmeno una matita.
A. ha telefonato chiedendo come andasse tra trasloco e pittura, io le ho risposto che la pioggia è colpa sua per essere andata a Portonovo, alla spiaggia del Clandestino, negli anni diventata la spiaggia di fine estate, quella, nella scelta, scelta appunto per dire ciao al caldo.

È una domenica di pioggia, quella che continua dopo aver tenuto la figurina di Franco Baresi sul mio tavolo bianco da disegno, quello su cui disegno da sempre, quello che mi porto dietro da quando sono nata, quello su cui ho disegnato praticamente tutta la mia produzione.
Se ne stava lì, vicino a scotch di carta, da pacchi e forbici e pennelli e vernici.
C’era anche un libro di grammatica di quando andavo in V elementare che ho trovato spolverando la libreria.
Ma la figurina e gli occhi corrucciati di Franco hanno guardato me e Ila pitturare per tutto il giorno.
E con me hanno guardato Bologna – Napoli la sera, nel posticipo.
Una volta avrei preso queste righe e le avrei fatte diventare un fumetto. Le avrei disegnate subito, almeno schizzandole.
Nel liberare l’altra libreria, ho trovato tantissime storie brevi iniziate, e lasciate lì per svariati motivi. Il primo, il più grande, quello che mi impedisce una regolarità produttiva, è la disciplina. E poi, me stessa, sempre.
Ma.
Mi sta frullando qualcosa in testa.
Mi sta tornando voglia di disegnare tanto, e tutto quello che mi viene in mente.
Mi sta venendo voglia di rimettere a posto i pezzi.
E conservare meglio la figurina di Franco Baresi che, come il mio tavolo bianco da disegno, mi accompagnerà sempre.

 

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