čuvaj se, abbi cura di te

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Il romanzo è qui accanto a me, sul divano. Non ho ancora finito di leggerlo, mi mancano ancora settanta pagine. “Venuto al mondo” della Mazzantini mi osserva nella sua copertina verde dell’arredamento di una camera da letto e pesci rossi saturi nella grafica da photoshop, pugni arancioni nella luce a effetto che sono come il libro.
Sono nella mia fase italiana, ovvero leggo solo romanzi di scrittori italiani, ne finisco uno e ne inizio un altro, ma rigorosamente italiani. E so che ogni volta che prendo in mano un romanzo della Mazzantini devo aspettarmi un ragazzo/a adolescente incompreso o almeno incomprensibile narrato spesso come un alieno (il che fa, fa nella misura in cui ci si cala in quello stato d’animo per cui non riconosci e non capisci più la gente giovane), una donna imperfetta, a metà, ma che ha tutte le caratteristiche per restare nella memoria, nella sopravvivenza, in un arco della vita che viene raccontata, nelle pieghe di un lenzuolo, nelle pareti di una casa che è improvvisamente vuota ma solo con il ricordo del Grande Amore (e che è praticamente sempre la Mazzantini camuffata da protagonista), appunto questo Grande Amore, che sia uomo o donna importa poco, è uno di quelli che i protagonisti vivono fino a che viene loro concesso ma poi questi a un certo punto scivolano via, in un’altra direzione, scelgono altro, una vita, un compagno/a, una situazione, una città; e poi altri personaggi comprimari molto forti e commuoventi. E ultimo ma non meno importante, gente morta, ma morta proprio ciao. Generalmente questo, che sia Roma o Sarajevo ci aggiriamo sempre intorno a quella sinossi.
E so che ogni volta che prendo in mano un romanzo della Mazzantini farei prima ad andare da un pugile professionista e dirgli di usarmi come sacco per i suoi pugni, perché tanto i libri della Mazzantini hanno esattamente lo stesso effetto, cazzotti nello stomaco che tolgono il respiro e costruiti così bene che riescono a rimanere impressi come fotografie indelebili. Sì, ho sempre pensato questo dei suoi libri: ottimi, davvero ottimi esercizi di sceneggiatura, di mestiere; ne conosce le pause, ne sfrutta le potenzialità, dilata il tempo in un universo nel quale anche il lettore viene coinvolto, colpi di scena efficaci e a volte letteralmente terribili per non dire scioccanti e personaggi così variegati, umani, diversi, che ne escono indimenticabili. Il tutto in una scrittura asciutta, cruda, diretta, senza giri di parole e nemmeno pomposa. Poche parole per darti l’ennesimo cazzotto e un’immagine stampata in testa che rimane fino a che non si passa a leggere altro, più o meno.
Il primo cazzotto vero, ma vero che ti strozza il fiato in gola, è a pagina 181 (almeno nell’edizione della Mondadori nel formato 14×21,5), gli altri sono cazzottini perché tanto sai già che il Grande Amore è morto e qualche altro vai ad indovinare, che uno non basta. Il secondo, almeno per me, è la descrizione della morte di. Sta brutto spoilerare, ma è a pagina 464, anche se la scena o almeno l’andito di ciò che sta per arrivare inizia a pagina 456.
Era la prima volta che leggevo qualcosa e avevo un’immagine precisa di quella che la Mazzantini descrive così: “Le tombe s’inerpicavano in salita su un terreno digradante che sembra quello di certi viticci terrazzati.”

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Ed era da tempo, dall’estate, che le foto che mi aveva mandato Lia, la signora di Salò conosciuta sul Cammino, proprio da Sarajevo, le avevo nella memoria dell’Iphone ma non mi ero mai avvero soffermata ad osservarle. Capita una notte, una notte calda di settembre, nella quale faccio tardi leggendo perché un buon libro ti induce a pause, a ragionare, a capire cosa stai leggendo. E in quella pausa ho scorso finalmente quelle foto e una era proprio stata scattata al cimitero Leone. Neanche a farlo apposta, riprendo la lettura e la Mazzantini mi descrive la scena del cimitero.
Questo libro, l’avventura nel vivere e leggere questo libro, è stata una serie di coincidenze: Croazia, Serbia, quei luoghi, oggi scenografie di altri migrazioni di profughi come furono i bosniaci, lo stesso ventennale della guerra in Bosnia, il nome del Grande Amore che è lo stesso che ho amato e amo, un bambino che deve arrivare e che adesso che è arrivato è uno dei motivi di gioia più pura, vortici di incroci nel libro e nella mia vita che mi fa pensare sempre di più che ogni libro HA un suo momento giusto.
Per quasi tutta la lettura del libro, la domanda Perché? Perché mi vuoi raccontare questa storia che fa un male cane? mi rimbalza in testa. Perché? Perché tutto questo dolore? Perché?!?!
Naturalmente, arrivata a meno settanta, pensavo tipo che il peggio doveva essere passato. Mi sbagliavo. E alla grande.
A una cena a casa di un’amica raccontavo la mia terribile lettura. C’è stata una notte nella quale ho dormito male, dopo aver letto quelle pagine dalla 454 in poi. Ho avuto brutti pensieri e il sonno è stato tormentato, stanco, disturbante e la mattina, quando avrei dovuto essere riposata e carica per la giornata lavorativa, mi sentivo nervosa dal poco rilassamento e priva di voglia. Un’amica, appena udito il nome Mazzantini, si è portata una mano al petto voltando il capo e simulando un respiro strozzato in bocca, l’altra, il Pelino, mentre si era accucciata per prendere i calici bombati da vino, ha detto una cosa tipo è quello della prostituta? dopo aver commentato con un sono i libri di Gigi. Siccome ogni tanto con il Pelino sono necessari i sottotitoli, sapevo già che si era passato a parlare dei film (oltre che capire al volo che Gigi legge solo robe pese, tipo che adesso va a manetta con la Ferrante), e le ho chiesto se era quello con la Penelope Cruz, ignorando che fosse stata scelta anche per il ruolo di Gemma nel film successivo della coppia Castellitto – Mazzantini. Sicura del mio, risposi quello è “Non ti muovere”. e un ah già seguito da borbotti ed espressioni tipo anche mai più (nel vedere film così duri), lasciai cadere la conversazione nel tentativo di argomentare i libri della Mazzantini, un po’ perché iniziava la partita di Champions del Chelsea un po’ perché la bottiglia di Syrah aspettava di essere  – felicemente per noi commensali – aperta.
La simulazione del respiro strozzato in bocca è la classica espressione a un mio Mazzantini, o a un Mazzantini generico, e credo ormai fermamente che possa diventare una bellissima gag. Dici Mazzantini e qualcuno fa quel respiro strozzato in bocca con il gesto teatrale della mano sul petto. In effetti poi è ciò che ti lascia. Una sensazione terribile; perché i libri della Mazzantini sono molto belli, ma il primo istinto è quello di consigliare di non leggerli. E questo “Venuto al mondo” rientra ampiamente in questa tesi.
E poi c’è la guerra. La Bosnia. L’assedio a Sarajevo. La città devastata. I cecchini che sparano dalla montagna. Quella guerra assurda che compie vent’anni. E riviverla tra le pagine del libro, te ne fa ricordare gli orrori, che la Mazzantini ovviamente non lesina e anzi, il peggiore, lo stupro come strumento di pulizia etnica, saranno poi pagine decisive. Non so se sia un effetto voluto oppure capitato così, ineffabile, come pare accada alla protagonista che non sceglie quasi mai se non ritrovarsi nel mezzo di qualcosa più grande di lei. Intanto lei stessa, la cui vita prima, durante e dopo Diego sembra essere una continua presa in giro della vita anche se la Mazzantini è bravissima nel descrivere quella vita prima nel contrasto forte della vita dopo, una vita fatta di tante inutili cose del quotidiano, tipo andare dalla parrucchiera, uscire per locali o vernissage fighi di una Roma che non è sfarzosa e nemmeno caotica, cosa che di solito emerge sempre quando si scrive della capitale, e poi quell’altra vita nella quale fare la coda con le taniche di plastiche in mano per l’acqua o la ricerca del cibo diventano fondamentali e lontanissime dalla superficialità, dalla noia, dalla tranquillità di un’esistenza in un paese senza guerra. Sì, la Mazzantini in questo è molto capace, seppur in recensioni lette in giro per la rete, definiscono “noiosa” questa prima parte di vita prima. Io invece la trovo talmente contrastante e onesta che quando arriva la seconda parte, quella della guerra, ci si rende davvero conto del cambio radicale di prospettive di una vita come la nostra da quella di gente che vive sotto i bombardamenti.
Di tutti i personaggi alla fine, lei, la Mazzantini camuffata da protagonista, risulta una spettatrice involontaria di un orrore enorme e con un figlio nato dall’odio, quel figlio voluto con così tanto egoismo anche in guerra che quasi se lo merita anche che sia quello che è senza spoilerare; Diego appare uno sciroccato o quantomeno un ingenuo, un essere capace di amare in modo puro ma capace anche di nascondere e difendere un segreto che, non so, ma a casa mia una roba così non è assolutamente accettabile, più che altro per una mia idea romantica dell’amore e se sei innamorato e quella è la donna che senti di amare, le resti al fianco, ti salvi con lei, non so, fai qualcosa di diverso da quello che fa lui nel libro. Diego al contrario si carica sulle spalle uno degli orrori della guerra e lo sente suo, lui ultras del Genoa che, come la Mazzantini camuffata da protagonista, si ritrova nel mezzo di una di quelle cose dalla quale fuggi a gambe levate invece di rimanere lì senza essere richiesto, per altro, proprio di sua sponte, un personaggio camaleontico nella definizione del lettore, a volte bello, a volte ammirevole nella scelta, a volte stronzo (parlandone con un’amica e raccontandole il Diego che decide di rimanere vicino ad Aska, il Diego prima delle settanta pagine finali), a volte debole, insomma, abbastanza indecifrabile. Gojko invece è un personaggio figo, molto lontano da quello che ti aspetti nella vita di tutti i giorni, ma contestualizzato nella ex Jugoslavia, come direbbero molti prevenuti dei paesi dell’est, è uno jugoslavo, uno slavo, se questo significa qualcosa. Avete presente quando vedete un’attrice francese con i suoi comportamenti, con la sua puzza sotto il naso, con insomma tutte le caratteristiche che, stereotipate, ti danno l’esatta immagine di ciò che rappresenta in questo caso la Francia, per cui poi si definisce con un semplice è francese a sottolineare uno status o un modo di essere. Ecco, Gojko è esattamente quello che ti aspetti da uno jugoslavo, uno slavo, da come si veste, da come si comporta, da come vive anche la guerra e sarà poi, insieme ad Aska, una vittima della guerra, vittima nella misura in cui rimani vivo dopo che vivi una cosa così, dopo che avendo vissuto una cosa così fondamentalmente la tua vita è finita per quanto si cerchi di andare avanti, ma è impossibile farlo, perché una cosa così ti scava dentro, ti prosciuga qualunque umanità, cambi per forza, specie se tutti quelli che ami e tutto quello che conosci ti viene portato via, quella rabbia di non avere un colpevole che puoi guardare negli occhi e mettergli le mani al collo, è devastante, e la devi inghiottire, Oppure si diventa come Gojko che poi, quella guerra, dopo che la sua esistenza non aveva più senso, privato degli affetti che davano un senso alla sua vita, è andato a combatterla e scatenando quella rabbia nella più umana della vendette: occhio per occhio, dente per dente. E non si riesce nemmeno a giustificarlo; fosse successa la stessa cosa a me, non avrei fatto lo stesso, scavalcando quel confine che ti fa rimanere pacifico, in una guerra poi che, come armi, viene concesso di tutto, dalla tortura alla decapitazione, allo stupro, alla violenza fisica e mentale più bassa che possa esistere. Il personaggio di Aska non sarebbe nemmeno male, ma sia la Mazzantini scrittrice, sia la Mazzantini camuffata da protagonista, odiano questa bosgnacca bellissima e libera fin dalle prime righe di descrizione e rimane tale fino alla fine; ogni volta che nelle pagine c’è Aska, quelle pagine trasudano insofferenza, odio puro, e infatti si vede cosa la guerra le lascia e che cosa le accade. Che poi sembra un circolo vizioso, tutti sono coinvolti e tutti recepiscono quell’orrore in modo diverso, nessuno è salvo e nessuno è davvero purificato o in pace dopo. Per esempio, quell’odio che la Mazzantini scrittrice e camuffata da protagonista prova per lei, le si rivolta contro e sarà lei ad avere tra le mani e sotto gli occhi il frutto, nel senso letterale del termine, di quell’odio personale e generale. Una presa in giro, una di quelle cose per cui sorridi amaramente per non piangere.

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E poi c’è la guerra. La Bosnia. L’assedio a Sarajevo. La città devastata. I cecchini che sparano dalla montagna. Chissà, magari anche da dove Lia ha scattato la foto sopra. Quella guerra assurda che compie vent’anni. Fa specie che vent’anni dopo, proprio dalla Croazia e dalla Serbia cerchino di passare i profughi siriani, quando profughi lo sono stati anche loro. Un po’ come tutti, a dire il vero.
La Mazzantini ci risparmia sulle due stragi del Markale (il link sono le riprese vere di quella seconda strage, nel febbraio del 1994; non guardatelo, non è nemmeno terribile, non c’è un termine per definire queste immagini) e sulla pulizia di Srebrenica e non è difficile immaginare perché, anche solo per il Rispetto e la Memoria umana di quelle persone, quelle reali che davvero ci sono morte in quelle stragi, invece di infilarci personaggi di fantasia solo per far commuovere il lettore, ma ci riporta a Mostar (il link è un articolo dell’Huffington Post molto, molto interessante) e al suo ponte fatto crollare senza un vero motivo (al di là della follia, ma pensi a una guerra, pensi a tattica militare almeno, ma no, nemmeno quella) e ricostruito più per sciacquare la memoria stessa che per vera bellezza della cittadina, una memoria troppo pesante, in una guerra che si vuole solo dimenticare, se fosse mai possibile farlo.
Una guerra silenziosa, dicevano.
Non ricordo quale estate fosse tra il 1992 e il 1995, ma era una di quelle calde in cui i giorni di pioggia si contano sulle dita di una mano. Da quella riva riminese, non era la prima volta che vedevo in giornate nitide la striscia lontana di terra lungo la linea dell’orizzonte. Lo racconta anche la Mazzantini nel libro, di quella striscia di terra in giornate nitide. E intorno a me, la solita Rimini estiva: i turisti, le signore con il pareo in vita a fare la passeggiata sulla riva, quelle che camminavano in acqua per rassodare le gambe, i bambini con il secchiello e la paletta a giocare con la sabbia bagnata, ragazzi con i racchettoni, gente che faceva il bagno, insomma, il solito. E io osservavo quella striscia, quel tg che d’estate fai fatica a guardare perché la pausa pranzo è doverosamente al mare senza pugnette io stranamente me ne ero interessata, perché cazzo, in quattro ore di nave eri di là, eppure a nessuno importava, non almeno su quella spiaggia in quel giorno caldo d’estate. E io ero lì, e pensavo, estraniandomi come spesso mi succede nello spazio tempo dal reale, pensavo e mi dicevo: laggiù c’è la guerra. Certo, la striscia che si vede da Rimini è al massimo il profilo di una delle isole e la guerra era un po’ più giù, ma l’idea era agghiacciante in quel caldo afoso. Mi rivedo ancora, su quella battigia, a dirmi questo pensiero. Che poi, il fratello dell’Enrichetta – che non ricordo quale lavoro faccia esattamente ma ha a che fare con roba umanitaria, andava e veniva ciclicamente dalla Bosnia quasi da subito finita la guerra-, ci raccontava di come in realtà fosse la Bosnia e in che condizioni fossero i bosniaci. Quasi in tempo reale, l’Enrichetta ci diceva di quello che il fratello vedeva in Bosnia perché sai, non avendo mai vissuto una guerra, ti immagini che tipo finisce e il giorno dopo la tua vita riprende come prima. Sti grandissimi cazzi invece: c’è tutto da ricostruire, TUTTO, e sa la madonna quanto tempo ci vuole anche solo a costruire una strada di paese qui in Italia, figuriamoci città intere dilaniate da mortai e granate. E diceva che ovviamente la gente non è che si riprende così, come niente, dopo una guerra. E mi sa che era già anche il dopo Kosovo (perché naturalmente è andato anche lì, dopo) e faceva un po’ Bosnia e Kosovo, allegria insomma, e riportava che niente, erano ancora lontani dal ritornare a una quotidianità che potesse definirsi tale.
Poi il libro l’ho finito e lo sto spurgando scrivendone. Vorrei scrivere che è un libro bellissimo e che va letto, soprattutto oggi che di guerre in giro ce ne sono ancora, che quella crudeltà in altre parti del mondo continua a esistere, incredibilmente, solo che essendo lontane non è affar nostro, perché abbiamo le nostre stupide guerre quotidiane, guerre vere che continuano a scoppiare, nell’anno domini 2015, anno in cui per altro cade il ventennale di quella guerra assurda, mai dimenticata, ma in fondo anche sì purtroppo. E vorrei scrivere che no, meglio non leggerlo perché fa male. Ma essendo una che preferisce fare per vedere com’è invece di immaginarlo e di perdermi una possibilità di arricchimento, anche solo umano, per quanto terribile, oggi, nella mia vita, la domanda è: io di terribile cosa vivrò mai? Un fumetto che non vende quanto avrei sperato? Mah…La mia memoria, la mia esistenza è una delle tante fortunatissime che una guerra vera non la vedrà mai, ma solo in televisione, mentre la memoria del mondo conserverà l’immagine di quella donna accasciata in una posizione innaturale su un banco del Markale con la testa esplosa a metà in un bagno di sangue.
Il film tratto dal libro non l’ho ancora visto, ma rimane una delle mie prossime visioni. Anche se immaginare la Mazzantini camuffata da protagonista con la faccia della Penelope Cruz insomma, mi lascia abbastanza scettica, così come un Diego con la faccia di Emile Hirsch che con quella barbetta ti riporta immediatamente a Into the wild, ma vabbe’. Che poi non sia più italiano e ultras del Genoa ma americano, vabbè’, licenza poetica, in fondo fa più figo la West Coast che il Marassi. Cioè, io preferisco il Marassi, ma sai, sono gusti, anche perché al Marassi non ci sono gli squali. Dicevamo. Chiaro che il linguaggio cinematografico è un altro rispetto a quello narrativo, quindi tante scelte sono quantomeno plausibili, soprattutto considerando che molti dei film tratti dai libri non vengono sempre letti, cioè quasi mai, così come è plausibile che il giocattolo cinema si avvale di frasi, musiche, immagini che nel libro sono solo nella propria testa e sulla base di proprie esperienze personali magari anche vissute. Che poi, dal trailer mi sembra proprio un film giocattolino, il Grande Amore tra Diego e Gemma, le frasi a effetto, insomma, una roba molto, molto diversa dal libro. Ma tant’è, ci può stare, essendo due linguaggi diversi e per forza di cose anche un prodotto commerciale non solo in Italia ma anche internazionale essendo una produzione collettiva.
E penso a Velida e Jovan, che, inventati, in quella guerra vendevano le loro cose e bruciavano i libri per riscaldarsi negli inverni freddi. Perché? io non farei la stessa cosa se da un giorno all’altro mi mancasse la corrente, l’acqua anche fredda, qualunque cosa che in questa mia vita fortunata è scontata, in questa mia vita fortunata nella quale ci si incazza per un semaforo rosso troppo lungo o un treno perennemente in ritardo, per riscaldare chi mi è rimasto di caro, persino le tavole dei miei fumetti? Dio, che cosa terribile, la guerra. E sì, nel fuoco, finirebbe anche il tuo bel libro, cara Mazzantini. E fa specie leggere le critiche su Miss Italia, oggi; certo, da donna la guerra non la combattevi, però cara giovane imbecillotta, lo sai vero che solo vent’anni fa le bosgnacche venivano sequestrate e stuprate da gruppi di serbi in tipo case chiuse e quando una rimaneva incinta ciao, perchè lo sai vero che la pulizia etnica tramite stupro è fare impazzire queste donne che ancora oggi non si sono più riprese e hanno dovuto farli nascere quei bambini concepiti così, immagino che tu lo sappia benissimo. Ma Miss Italia è una cazzata, è niente di fronte anche solo al ricordo di quegli anni. Anni di una guerra, di qualunque guerra, che non bisognerebbe mai, mai dimenticare. Anche se poi si torna a vivere, si continua a vivere, si DEVE continuare a vivere, come le ragazze che si fanno i selfie qui sotto nel perfetto specchio dei tempi.

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(le foto di Sarajevo sono di Lia, la signora di Salò conosciuta lungo il Cammino di Santiago)

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