E poi, tu

piediniDiego

Una mattina di inizio settembre. Una telefonata. Dalle Marche in auto fino a Ravenna. Per vederti nascere. Per esserci nel momento nel quale ti affacci alla vita. Che dono prezioso.

Il messaggio è inequivocabile.
La telefonata pure.
Una mattina qualunque, sveglia presto, tazzina del caffè fumante ancora tra le mani, il programma delle tavole da inchiostrare, o almeno la speranza di essere soddisfatti a fine giornata.
Ma non è una giornata come le altre.
Non ci penso troppo; per l’ennesima volta in questo straordinario anno, scelgo la Vita invece della mia inconfondibile pigrizia.
Alla radio su Deejay ci sono ancora le chiacchiere del Trio Medusa e quando parto dalle Marche il cielo è quel nuvoloso di passaggio, che non minaccia pioggia nemmeno per sbaglio. Ma mi sbaglio io, in Romagna c’è un sole che piomba. E al mare si starebbe da dio.
Fa ancora quel caldo bello, il sole picchia e l’aria è priva di brividi e quando si alza un venticello da ricircolo non è invadente ma rinfrescante.
Non ho idea di cosa affronterò.
Fuori dalla mia comfort zone dove tutto è misurato, oltre, tutto è imprevedibile. Non c’è per oggi la tranquillità vulcanica del mestiere, ma una cosa che fa più paura: l’incommensurabile grandezza della vita.
A Gabella, il borgo sotto Montemarciano, hanno allestito festoni con bandierine colorate. Sono ferma al semaforo all’angolo del bar a fianco del campo da calcio ed è già festa, una di quelle cose di cui ti accorgi sempre dopo, quei segnali inconsci che continui a memorizzare senza molta attenzione in momenti come questi. Quando tornerò di notte, vedrò la strada lucente dalle luminarie che ornano le case lungo il viale, e al quale ovviamente darò un significato tutto nuovo.
Non penso tanto al viaggio, so che vado piano, so che mantengo i limiti di velocità, so che sto sempre attenta. Ma non è a questo che penso.
Le uniche cose che mi ripeto sono che voglio essere lì quando nasci, voglio essere lì appena apri gli occhi, voglio essere lì, semplicemente. DEVO esserci. Il lavoro per qualche ora può attendere, qualunque stupida cosa che farcisce le mie giornate può attendere, tutto può attendere qualche ora in più.
Il viaggio lo passo così, sapendo che stai arrivando.
Non mi interessano le code, non mi interessa il tempo che ci impiego, non mi interessa niente. Solo il pensiero di te mi spinge senza coscienza, in questa bolla nella quale, oggi, il mondo è un luogo più bello.
Perché oggi cambia tutto.
Cambiano gli equilibri faticosamente costruiti negli anni, cambiano le regole, cambiano le prospettive.
Adesso c’è una vita prima di te, e dopo di te.
Vorrei poterti già raccontare l’emozione di questo giorno, vorrei lasciarti lo spirito di oggi. Dirti che il cielo era azzurro, il sole splendeva e l’estate non era ancora finita. Dirti che quando stavo tornando la sera, il cielo era ancora azzurro e le nuvole di panna avevano sfumature del rosa del tramonto. Dirti, amore della zia, che ti insegneremo la felicità, io a disegnarla magari, ma che a modo mio ti conoscerò. Vederti crescere e goderti adesso che sei così piccolo, nel tuo primo vero giorno sulla terra, oggi, il giorno dopo. Quel giorno nel quale non sei a metà, ma nel quale ti svegli con la mamma, tuo babbo ti tiene tra le braccia, e i nonni ronzano intorno impacciati. E che tenerezza i tuoi nonni, piccolo, tua nonna poi in quella sala d’attesa non aveva pace, tra la sedia e lo stipite della porta che dava su quello che abbiamo ribattezzato “il corridoio degli urli”, quello stipite che ha preso la forma del suo corpo. Una donna apparentemente dura, di quelle che hanno le mani gonfie di chi ha sempre lavorato duramente, con una fierezza e una raffinatezza di chi può camminare a testa alta, con la quale tua mamma ha litigato così tante volte e io ogni tanto pure presente, e poi eccola lì, nel suo imperturbabile sguardo, invece sciolto, profondo, preoccupato.
A ogni aprire la porta del reparto, nei pochi momenti nei quali si sedeva era lì a scattare come nemmeno un velocista, una tenerezza commuovente.

La tutina azzurra ti sta grande. I tuoi piedini ci ballano e anche le gambine. Non si poteva saperlo. Ci avevano detto il tuo peso verso la metà di agosto, poi sarebbe cambiato di poco. La prima volta che ti vedo sei in questo mondo da nemmeno un’ora, ancora in sala parto. Tua mamma ti tiene stretto a sé e io ti conosco così. Sei piccolo e il colorito rosa sarebbe sopraggiunto più tardi, quando famiglia della neo mamma e io, ti seguiamo in quella culla trasparente spinta dal neo babbo, la neo mamma sulla sedia a rotelle e l’infermiera che l’aiuta come faro, in fila indiana, in un’altra di quelle tante piccole attese che hanno costellato questa giornata.
Sono al tavolo da disegno. Ho il mio lavoro a guardarmi e a domandarmi cose tipo quindi? iniziamo? e il pensiero che ci sei mi fa stare bene. MI FA STARE BENE. L’idea che questo sarà il fumetto nel quale sei arrivato mi riempie di gioia, perché un giorno potrò raccontartelo, fartelo vedere, conservarlo per te e dirti com’erano questi anni, com’era tua madre, come eravamo noi. E poterti raccontare che le ultime tavole sono proprio in questo momento qui, questo agosto, esattamente così, nell’attesa di te.
Essere lì in quegli istanti è stato bellissimo.
Io c’ero, posso raccontarti che ero lì. Posso raccontarti che le pareti della sala d’attesa erano color crema con contorni bianchi, che c’erano dei quadri coloratissimi fatti a mosaico sulle pareti, che le sedie bucherellate erano in ferro, che mi sono anche seduta per terra, perché in cinque le avevamo occupate tutte, a rotazione, per fare qualcosa, per muoverci, passeggiare, fermarci, alzarsi ancora, risedersi, che tuo nonno aveva comprato Il Corriere dello Sport Stadio, quello con la scritta rossa, ma nessuno di noi lo ha letto veramente, lo tenevamo così, giusto per avere un appiglio, un gesto da fare in più.
C’è ancora il sole, come ieri; nuvoloso per divertimento alla mattina e di nuovo il sole. Tu sei ancora in ospedale, cullato.
Sai che ti ho conosciuto prima di tuo nonno? Mi hanno fatto entrare dopo tua nonna e tua zia. Proprio tua nonna mi ha incitato, Vai, vai tu Mabbel, mi ha detto con quel gesto della mano a spingere qualcosa di ineffabile nell’aria. Piango adesso, da sola, nel mio studio, pensandoti. E io non so chi ringraziare per aver avuto questo onore. Certo, ho pianto qualche lacrima anche nell’esatto momento in cui ti ho visto attaccato alla mamma, prima quei piedini gonfi della mamma, in sala parto, poi lei, nell’immagine che mi si è aperta davanti entrando, stesa, ancora avvolta nel telo verde, con quella devastata felicità della fatica. Piango adesso, libera, consapevole. Perché ieri le emozioni si susseguivano una dietro l’altra e un caffè dietro l’altro, lo stomaco chiuso che non riusciva a mandare giù un boccone, biscotti a caso e un toast così, senza appetito, mangiato per ammazzare il tempo, uno di quelli che il nonno si è fiondato a comprare perché la neo mamma aveva fame.
Ci sei, piccolo eroe che ha sconvolto le nostre vite uguali a quelle di altri, in questo mondo che oggi è così bello, per me, anche se passeremo così, tanti tra tanti, in silenzio, quel silenzio bello che è rumore in questa nostra parte di vita, di questo quotidiano nel quale ogni giorno si cerca di essere vincenti.
Sai che c’è?
Tu.
Sei entrato nel mio mondo e sai cos’altro?
Guardavo gli articoli abbozzati e in tutti i titoli che scorrevo con lo sguardo, pensavo solo che erano prima di te, come se non avessero più senso, o forse un senso diverso, ma meno importante. Ecco, non più rilevante. Certo, ci saranno una montagna di cose rilevanti, con il tempo ritorneranno a esserlo forse per noia, più che per verità, perché l’unica verità è la tua presenza, quella verità incontestabile. Il rumore nel silenzio delle nostre piccole e preziose vite, solo nostre, intime, Nostre. No, non rilevante, ma fondamentale.

Questa mattina, il buongiorno è stato con una tua fotina, di te che dormi, piccolo, con il pupazzetto che i tuoi genitori hanno tenuto nel letto per abituarti al loro odore. Uno dei più bei buongiorno che abbia mai vissuto.
E sai che mentre scrivo e mi sono dovuta togliere gli occhiali perché non contenevano le lacrime, penso che sì, bella, questa emozione di adesso, ma mi dico che va bene piccolo, basta sentimentalismi, ‘che adesso inizia il divertimento, tipo quando mi capiterà tipo che aiutando la mamma, mi smerderai o mi vomiterai addosso o tutte quelle cose che incredibilmente riesci a superare perché è come se fosse roba tua e l’amore fa fare cose che prima sembravano impossibili. Come quella volta al ristorante a Civitanova Marche, con Giulio e mia sorella e sua mamma dietro, sparite per tipo quanto?, tre quarti d’ora?, e tornando dal bagno ci hanno raccontato tra le risate e l’incredulità che. Un’avventura, una delle tante.
Sì, basta.
Ci sei, punto.
E poi, tu.
Per tutti i sorrisi che avrai, per tutto l’amore, per tutta la felicità, per tutti i buongiorno che, da oggi, non sono più gli stessi.
Per la gioia del mio ritorno a casa, a raccontare alle amiche ogni istante, a scrivere il tuo nome e a salutarti su un foglio e a scattarci una foto da mandare alla tua mamma, per la visciola bevuta in tuo onore, per darti il benvenuto, abbiamo brindato a te, per la prima volta nella tua e nella nostra vita, il primo di tanti. Per tutti i brindisi, per tutto quello che vivrai con noi, in questo piccolo pezzo di esistenza.

E me ne accorgo solo dopo, quando ho buttato nel cestino la lattina di Coca – Cola.
Difficilissimo oggi vedermi bere Coca – Cola eppure ieri era l’unica cosa che mi è venuta in mente al posto dell’ennesimo caffè.
E ho anche fumato pochissimo, perché e se scendevo e mi arrivavi?
Ti perdevo per una stupida sigaretta?
Mai.
Ero appena tornata dalla sala parto perché l’avevo lasciata in mano a tua zia che me l’ha ridata al mio ritorno.
Ti avevo appena conosciuto, la mia prima volta con te.
In un momento di fancazzismo, uno di quei pensieri che di solito attraversano spesso la mia testa, penso a che nome avrò bevuto, a che nome c’era scritto sulla lattina.
Vicino ai fazzoletti pregni delle nostre prime lacrime dopo averti conosciuto, non potevo credere alla parola letta.
L’unica cosa che conta, in questa bellissima giornata dove non si respirava altro.
Questo.

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