Germania – Norvegia 1 – 1

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Germania – Norvegia è una finale travestita da una qualunque partita del girone. Ma non è il 5 luglio, è solo l’11 giugno 2015.
L’attesa e la curiosità è simile a quella delle grandi partite, quelle che speri siano ben giocate e per cui l’emozione non inchiodi le gambe, o, peggio ancora, che si perda in un tatticismo a centrocampo da latte alle ginocchia.

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E invece, nei 72 gradi farehneit pari a 22,2 gradi centigradi, in una giornata dal gusto continentale – nuvole e sole che si alternano nel cielo -, allo stadio Lansdowne di quella gran bella città che mi riferiscono sia Ottawa, al finale del primo tempo le statistiche dicono 19 tiri a 1 per le tedesche: dunque, tutto tranne che noiosa. Tanto che il primo tiro della Germania è dopo mezzo minuto. E poi, semplicemente, un assedio.
Germania e Norvegia arrivano alla seconda partita dopo i successi scontati sulla carta (goleada in Germania – Costa d’Avorio 10 – 0 e un tondo 4 – 0 in Norvegia – Thailandia), e si presentano in campo nei rispettivi 4 – 4 – 2 e 4 – 3 – 3 con le formazioni migliori: se nella prima non mancano la veterana capitano Angerer, Sasic, Marozsan, Grossling, Popp e Mittag altrettanto nella seconda ci sono Mjelde, Herlovsen e Hegerberg.
Germania in completo rosso e Norvegia in bianco, con pantaloncini blu, per altro. Persino la grafica si sbaglia sul primo gol perché non ci si è ancora abituati alla Germania in maglia rossa. Per i primi minuti continui a pensare che le rosse siano le norvegesi e lo sforzo psicologico nell’invertire l’ordine di idee, o almeno l’abitudine della memoria, è notevole. Ma evidentemente vale lo stesso discorso di un Real Madrid in maglia rosa shocking (Schalke – Real Madrid di Champions) o di un Juventus – Sampdoria rispettivamente in blu e in rosso.
Colori a parte, il fatto è che non ci si aspetta comunque una Germania così in partita e una Norvegia così passiva e arrendevole. Fa specie vedere una Norvegia così impotente, fa specie perché le norvegesi sono gente che sa giocare, fa specie perché ribalta qualunque pronostico. È vero, ogni partita è come una storia, ogni partita ha un copione da raccontare, ogni partita è diversa dalle altre e anche quando hai l’impressione che, siccome la Norvegia è la Norvegia e deve vincere a prescindere, gare come questa ti aprono gli occhi su ciò che si ci aspetta e ciò che in realtà è. E cioè che la Germania è una squadra pazzesca: costruisce, pressa senza lasciar respirare le avversarie, ha gioco ed è bella da vedere. Nell’arco di 25 minuti hanno deliziato il pubblico (e me) con: rovesciate in area, colpi di tacco smarcanti, giravolte alla Zidane: dei mostri. Dei mostri da calcio champagne di quello che non si vedeva da tempo. E con una mostruosa Marozsan.

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Dzsenifer Marozsan, la numero 10, è un centrocampista offensivo che gioca centralmente dietro le punte e con libertà quasi totale di movimento. Nata in Ungheria ma naturalizzata tedesca, segue la famiglia nel trasferimento del padre, anch’egli calciatore (vestirà anche la maglia della nazionale ungherese) passato tra le file di una squadra di Bundesliga. Mastica calcio da sempre, la Dzsenifer, ventiquattro anni di tiri precisi e velenosi e, proprio contro la Norvegia, la sua impronta è devastante. Non è elegante come la francese Necib per la quale non ho mai nascosto stima assoluta (e godimento totale nel vederla giocare dal vivo), anche perché si fa fatica a definire elegante un tedesco a meno che non si chiami Claudia Schiffer, ma dà la sensazione di potenza e poi c’è eleganza ed eleganza. C’è lei in ogni azione pericolosa della Germania, c’è lei in ogni costruzione, c’è lei in ogni gol. E infatti è da un suo tiro velenosissimo – che con l’aiuto del campo sintetico rimbalza davanti a Hjelvmseth acquistando maggiore velocità – che nasce la rete del vantaggio. Al 5o, Hjelvmseth si immola respingendo centralmente nell’area piccola (mai, mai te lo dicono anche alla scuola calcio che se proprio non riesci a tenerla almeno deviala lateralmente o fuori dallo specchio della porta) e non può nulla contro il tapin vincente della Mittag.

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Ma non c’è modo di arginare le tedesche e il gioco veloce a cui ci ha abituati la Norvegia si vede in un paio di tentativi prima del 45imo, negli ultimi cinque minuti del primo tempo, nei quali sembra che la Norvegia trovi un po’ di coraggio e Angerer è costretta a due parate salvifiche: la prima su un tiro della Herovlsen e la seconda, sul calcio d’angolo successivo, nella quale smanaccia di pugno sulla traversa.

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Le norvegesi, in alcune espressioni, assomigliano ai brasiliani nel drammatico 7 – 1. I loro volti all’entrata negli spogliatoi nella pausa sono spossati, giocatrici completamente demolite dalla furia tedesca.
Hjelvmseth ha parato l’impossibile compresa un’altra mina della Marozsan, i cui tiri sul sintetico nonostante la sua mostruosità prendono effetti imprevedibili.

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Nel secondo tempo però si avverte qualcosa di diverso. Non che la Germania smetta di giocare, è che la Norvegia acquista coraggio. Le tedesche avrebbero potuto chiudere la gara con una goleada ma questa poca concretezza è un campanello d’allarme che, dopo un primo tempo così, non ci fai caso, salvo poi materializzarsi come pericolo vero e proprio contro la Thailandia.
E mentre un ragazzino con la maglia del Barcellona e un cappellino da baseball si porta a casa un pallone finito in tribuna, la Norvegia inizia a crescere e dimostra di essere una squadra organizzata che esprime il meglio in velocità e che predilige verticalizzare, tanto che quando la Germania si ridimensiona, nasce l’azione del pareggio.
Nonostante un arbitraggio medio – la partita non è cattiva ma alcuni interventi avrebbero meritato più dei due gialli finali, tuttavia buono nelle decisioni importanti -, non era facile vedere il punto preciso dove era stata stesa la Herolvsen in corsa. Punizione dal limite e cuore fermo, in palpitazione.

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Sulla palla c’è la specialista Maren Mjelde, il cui tiro è un capolavoro che nemmeno Michelangelo con la Cappella Sistina: meraviglioso è dire poco. Angerer non può che rimanere immobile e osservare l’arcobaleno millimetrico del pallone finire nel sette. È un gol su punizione talmente bello che andrebbe inserito negli almanacchi di calcio alla voce perfezione.

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È il pareggio della liberazione e persino la Mjelde, nel festeggiarlo, si lascia cadere a terra sollevata dal risultato finale mentre le compagne la sotterrano di abbracci e urlano anche loro la liberazione raggiunta.

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Al 63simo la partita è nel pieno vivo. Attaccano entrambe ma è a centrocampo che si gioca. Poche azioni degne di nota con un tentativo lezioso di sorprendere la n. 1 svedese fuori dai pali da parte della solita Marozsan che, al termine, sarà premiata come migliore giocatrice e con la sua Germania prima nel girone per la già incolmabile differenza reti.
Ma la partita è finita in quel momento, quel lasciarsi cadere senza forze della Mjelde in quell’attimo eterno da fiato sospeso prima della sua stratosferica punizione.

(le foto sono tutte sfocatamente mie)

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