Algarve Cup 2015

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L’Algarve è una regione a sud del Portogallo.
Soleggiata e ventosa, ha il clima mite del Mediterraneo che strizza l’occhiolino al caldo africano mista a quello atlantico.
È una delle mete favorite del popolo dei surfisti che, su quelle spiaggie, trovano le onde ideali sospinte dall’Atlantico vicino che ne condiziona fortemente la variabilità atmosferica.
Spiagge lunghe dalle onde alte che vanno a scemare lentamente, su sabbia consistente e scorci rocciosi grigi e blu, battuti dal vento incessante dell’oceano. A sud, invece, spiagge e rocce arancioni, battute ugualmente dal vento, ma quello africano che ne varia e profuma i colori.
Ed è una meta turistica di cui il Portogallo va fiero.
Comprensibilmente, perché definirlo incantevole è riduttivo.
L’Algarve però è anche scenografia di uno dei tornei di calcio femminile più prestigiosi da quasi vent’anni a oggi, insieme ai Mondiali e alle Olimpiadi.

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Il pallone ufficiale dell’Algarve Cup, lasciato solo a se stesso in uno stadio vuoto.

L’Algarve Cup nasce nel 1994.
Negli anni ha modificato regolamenti e soluzioni tra gironi e abbinamenti e concentra il meglio del calcio femminile, compatibilmente con il livello dei paesi che nel frattempo crescono come tesserate e investimenti, per cui noi italiane ci rammarichiamo di non parteciparvi spesso, dopo annate di inviti più per tradizione storica che non per veri meriti. Basti pensare alla disavventura di qualche tempo fa dello Jesina femminile che, pagato a proprie spese pullman e trasferimento, si è ritrovata in Veneto di fronte a un campo di patate talmente allagato che le Saline di Cervia al contrario erano terreno perfetto per una partita di calcio. Dietro front con la squadra di casa che si scusava incolpevole perché il calcio femminile in Italia (e la conseguente programmazione dei campi utilizzabili per categorie) ha un’importanza pari allo zero. Se poi pensiamo che, nelle categorie minori (ma ho qualche dubbio che accada anche nella Serie A femminile), se ti fai male devi solo pregare di guarire affidandoti a buoni medici vicino casa perché la società non copre e tu, giocatrice, oltre a pagarti tutto, hai anche le spese mediche sulle spalle. Insomma, ti fa passare la voglia di giocare.
In questo edenico scenario, rimane curioso come la nazionale under 17 italiana sia arrivata a un terzo posto nel mondiale in Costa Rica nel 2014, traguardo di per se storico. E chissà che, mandate in pensione Panico e Gabbiadini (sì, avete letto bene, è la sorella del Manolo Gabbiadini del Napoli ma lei si chiama Melania), questa nuova generazione non faccia tornare le azzurre di nuovo a competere con quelle macchine da guerra che è il calcio femminile in tutto il mondo tranne che in Italia. Nazionale italiana che, allenata da Antonio Cabrini (quel Cabrini che sbagliò il rigore nella finale Italia – Germania a Spagna ’82 ma che alzò comunque la Coppa del Mondo in quel Mondiale trionfale), ha ciccato il passaggio al Mondiale a Canada 2015 contro un’Olanda assolutamente alla portata giocando il ritorno in un Bentegodi vuoto e piovoso e dal biglietto gratuito.
A voi stoici di questo blog che leggete anche i miei voli pindarici sul calcio, nomi come Patrizia Panico e Melania Gabbiadini non dicono niente ma forse un Carolina Morace vi dice di più. Forse (giocatrici immense e che hanno regalato la speranza che anche noi giocatrici plebee potessero emularle). Così come, se esiste una conoscenza sommaria di cultura generale, immagini come queste ve le ricordate. Forse.

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Questa è Brandi Chastain, ottima giocatrice americana che si tolse la maglia rimanendo in reggiseno sportivo nel festeggiare il rigore vincente nella finale del Mondiale vinto dagli USA al RoseBowl di Pasadena contro la Cina. Ricevette, nel lontano luglio 1999, un’attenzione planetaria che le permise di diventare un’icona del calcio femminile e la fece finire sulle prime pagine di riviste americane famose come Sport Illustreted e Newsweek e (siccome gli americani non sono degli scemi quando si tratta di cavalcare l’onda e crearne immagini indelebili nell’immaginario collettivo) persino la Nike la scritturò per una pubblicità, questa qui sotto, nella quale appare con Kevin Garnett, cestista NBA, impegnati in una partita a biliardino e che quando lei segna lui si aspetta che si tolga la maglia. Opinabili le intenzioni a vederlo oggi, un tantino discriminante a vederlo oggi, ma non si trattava solo di potenza mediatica, serviva un cambiamento culturale che stava iniziando a nascere proprio in quel periodo. Ma era necessario: l’idea che una calciatrice fosse protagonista in una pubblicità permetteva al movimento un’attenzione che serviva per insistere su questo agognata rivoluzione culturale. Brandi scrisse anche un libro, dal titolo ironico It’s not about the bra (letteralmente: “Non riguarda il reggiseno”).

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Questa invece è Mia Hamm, o meglio, la sua silhouette nell’atto di calciare il pallone scelta per il logo della Women’s Professional Soccer dal 2009 al 2012 e che oggi fa parte del CdA della AS Roma (la Roma di Serie A maschile): leggenda assoluta del calcio femminile made in USA (rientra tra i migliori giocatori della classifica FIFA 100, cioè i migliori 125 giocatori di tutti i tempi, e, ah be’, l’altra è sempre americana, unici due nomi quando scorri la lista per nazionalità) il picco lo provò sulla sua pelle quando comparve in questo spot con nientepopodimenoche un certo signor Michael Jordan, non uno qualunque direi. E sappiamo che un’azienda come la Nike America non si muove certo se non coinvolgono le masse e dunque immaginate che razza di popolarità potesse avere Mia Hamm in quegli anni. E nella pubblicità quasi è più forte di lui.

Questo accadeva in USA dopo quel reggiseno e quella popolarità mediatica. Il calcio femminile è a tutt’oggi lo sport più praticato dalle adolescenti in America compresa l’università (e adesso sapete anche perché Jess e Jules alla fine di “Sognando Beckham” scelgono la borsa di studio in America sulla base della squadra di calcio). Immaginatevi in altri paesi nei quali, con meno clamore, il calcio femminile è passato alla ribalta. Italia a parte, naturalmente.
C’è un’altra considerazione da fare sul calcio femminile e del perché negli altri paesi è così popolare, prima di tornare all’Algarve Cup. È impietoso ma purtroppo spesso si cade nell’errore di paragoni con il calcio maschile, calcio maschile che però riflette la situazione del calcio femminile. Oggi, in iIalia, guardiamo al Real Madrid, al Barcellona, al Chelsea, a quelle società ricche che vincono trofei e hanno visibilità mondiale e ci si scandalizza per l’assurda situazione del Parma e dei soldi stranieri dei vari Thoir e Mr Bee schierandosi (quando si perde perché quando si vince ben vengano i proprietari stranieri) con quell’idea provinciale tutta italiana dell’azienda familiare, che sono poi le società di calcio. L’Italia è stata costruita sulla concezione dell’azienda familiare ed è uno scoglio di pensiero difficile da abbattere. Io per prima sono a favore dell’italianità e non sapete quanto mi faccia venire l’orticaria che il mio Milan possa avere una maggioranza cinese. Ma con il calcio degli altri paesi ci sono sostanziali, abissali, differenze. Intanto, molte sono società polisportive quindi maggioranza dei tifosi alla guida dell’azienda tramite la quale viene eletto un presidente che orchestra il tutto e oltre a questo impianti di proprietà, settori giovanili all’avanguardia e una cura del fatto in casa impressionante, più squadra femminile e altre squadre in altri sport (mai notato che il Barcellona di basket e del femminile sono uguali a quelle calcistiche?) possibilmente vincenti come la squadra di calcio. Il fatto che poi i casi della Red Bull e del Manchester City (i proprietari hanno acquistato le squadre e ne stanno facendo nascere altre satelliti in altri campionati con attenzione al settore giovanile, femminile eccetera eccetera) possano diventare comuni, in Italia questa prospettiva aziendale non viene molto calcata con il risultato che il calcio femminile rimarrà indietro. Eppure, proprio sui successi del calcio maschile, anche quello femminile ha un suo perché. Per farvi un esempio, le società che stanno bene economicamente sono anche quelle che hanno una squadra femminile competitiva. PSG, Chelsea, Manchester C, Lione, Wolfsburg (fateci caso, sono quasi tutte ai vertici dei rispettivi campionati) sono tutte squadre, maschili e femminili, che adottano questo metodo, e non è un caso che il Wolfsburg di nerazzurra memoria sia secondo nella Bundesliga, tanto è vero che quello femminile è da due anni che vince la Champions. Nulla di ciò accade in italia. Dai miei ricordi, giusto il primo Milan fece una roba simile, avendo anche la squadra di rugby e quella di calcio femminile, poi lasciate morire chissà dove. In Italia, certamente c’è un richiamo alle squadre maschili, ma tante altre si sono costruite una propria storia e (soprav)vivono indipendentemente, come il Verona e il Brescia che sono le nostre Real e Barca e altre come il Cervia o il Ravenna, storiche nel femminile, nel maschile orbitano in campionati minori. Per non parlare della sarda Torres, ormai defunta. Quindi le differenze abissali sono una progettualità e una gestione del capitale della società che in Italia manca completamente, accecati dal dio soldo e dai risultati a breve termine.
Siccome nelle mie letture quotidiane dei giornali e siti sportivi, non uno ha anche solo accennato che si svolgeva questo importante torneo (figuriamoci poi un trafiletto con il nome del vincitore – anche se chapeau a mondopallone.it – ), lo faccio io, naturalmente a modo mio – turpiloquio, informazione casereccia e foto scattate con l’Iphone anche se devo soccombere alla ricerca in internet perché le mie sono pessime.

l’Algarve Cup 2015 si svolge dal 4 all’11 marzo. Vi partecipano Brasile, Cina, USA, Germania, Danimarca, Portogallo, Svezia, Giappone, Islanda, Svizzera, Norvegia e Francia. Molte partite sono in contemporanea e, lavorando nel mentre, vi racconto le partite che ho visto.

Giappone – Danimarca 1 -2

Inizio a guardare Giappone – Danimarca con le nipponiche che vanno in vantaggio per poi essere recuperate nell’ 1- 2 finale delle danesi che non mollano mai. In uno stadio praticamente vuoto (costante che si ripeterà fino alla finale), noto le prime differenze tra l’Italia e gli altri paesi. Se in Italia, la nazionale è vestita con gli scarti di quella maggiore (ci sono state partite nelle quali le nostre giocavano con addosso aquiloni invece di maglie) l’Adidas per il Giappone ha creato una casacca nuova nuova, con inserti rosa sull’azzurro tradizionale.

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Attimi di gioco concitati e confusi tra danesi e giapponesi che però hanno gli inserti rosa.

Germania – Svezia 2 -4

È però in Germania – Svezia che l’Adidas si supera. Sia per le tedesche sia per le svedesi l’azienda delle tre linee rifà il look: magliette svasate in vita e una femminilità che non sempre si vede sui campi di calcio. Con le tedesche poi va al top, perché distingue la casacca da quella maschile e ci cuce sopra le stelle delle tedesche e ci mette anche i nomi sopra ai numeri, cosa che non tutte le altre hanno, Svezia inclusa. La partita (sempre in uno stadio semi vuoto) è incredibile. La Germania ammazza le svedesi con un uno/due micidiale portandosi sul 2 – 0 nei primi venti minuti. Nel secondo tempo, le svedesi entrano in campo con un altro spirito passato lo shock iniziale e macinano gioco. Crolla dunque la Germania fino al pareggio delle bionde svedesi: Nadine Angerer, il capitano portiere, esce avventatamente sulla trequarti entrando in scivolata sulla calciatrice svedese che la salta e arriva in rete seminando altre tedesche e siglando il pari. Il colpo è notevole, le tedesche si sciolgono come neve al sole e la Svezia vince con un insperato 4 – 2 che nessuno avrebbe azzardato dopo i primi venticinque minuti di gioco (ma la Germania si riprende la rivincita nella finale per il terzo/quarto posto e batte le svedesi per 2 – 1). È un calcio ancora umano, quello femminile, è un calcio ancora sano: nell’infortunio della centrale della Germania, ragazza bionda che già in campo (prima di lasciare il campo in barella) piange a dirotto per il dolore; non si vergogna di farlo, esprimendo tutta la sofferenza in un sogno, quello di giocare, spezzato. A proposito, lei nella foto sotto è Angerer che, dopo questo esordio con l’uscita suicida, alla seconda partita viene lasciata in panchina.

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Portogallo – Francia 0 – 1

Il Portogallo padrone di casa non mi sembra male, ma è mistificante la Francia, squadra che fatica a carburare, sempre presente tatticamente ma sempre lenta a trovare le misure in campo. Gioca in bianco e quando le trova, le misure, fa la partita, imposta il gioco, pressa, gioca tutta avanti (rischiando le accelerate delle portoghesi) per poi trovare l’1 – 0 che io non posso vedere perché mi va via il collegamento a causa del vento forte e della pioggia scaricata dal cielo. Lo riguardo in replica, perché mi riguardo la gara e, nel secondo tempo, l’allenatore francese mette Lavogez sulla sinistra spostando a destra Dali accentuando lo sbilanciamento in avanti, ma le francesi spingono e da un pallone vagante Boulleau, da ala aggiunta, lo recupera e di prima passa laterale a Lavogez che crossa in mezzo e la testolina bionda della Le Sommer insacca. Imparo a riconoscere le giocatrici francesi: Eloide Thomis, elegante centravanti esterno dalla falcata ampia, mi piace molto. E poi Le Sommer che per le sue accelerate e il suo essere sempre presente al centro del gioco d’attacco dà l’idea di un attaccante che forse non segna caterve di reti ma, accidenti, che brava!

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Uno scontro di gioco all’apparenza innocuo tra Anaig Butel e Ana Borges.

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Evidentemente no, considerato il volo della n.9 del Portogallo: il calcio è contrasto anche nel femminile.

Germania – Cina 2 – 0

È un poco cattiva, ma con Angerer in panchina la Germania vince facile. Le cinesi giocano un calcio brutto, le tedesche col minimo sforzo seppur nella durezza dei loro volti concentrati portano a casa il risultato positivo.

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Mentre la tedesca si sistema la coda, la cinese si allontana con una camminata da sfilata di moda.

Francia – Danimarca 4 – 1

In questa partita, per la prima volta, mi accorgo di quel che è la Francia. L’ossatura della nazionale è quella dell’Olympique Lione con qualche innesto dal PSG. A guardarle da così lontano sembra un sogno che una federazione, nonostante le incomprensioni, le richieste e le possibilità, possa creare un movimento calcistico femminile elevato. Di atlete intendo, che giocano a calcio come lavoro intendo, e non ragazze che lavorano o studiano e possono allenarsi solo la sera. Sarah Bouhaggi sembra un portiere affidabile, mentre il capitano Renard è un centrale statuario che comanda la difesa con un’autorità che spacca. E poi c’è il resto. Il gioco della Francia è sempre uguale, cioè appena prendono palla Le Sommer passa laterale per le accelerazioni della Boulleau, terzino sinistro degno del nostro Maldini, o della Dali, collo corto e incassato nelle spalle, che la piazzano in mezzo per appunto Le Sommer e un’altra top come la Lavogez. Forse questa è la formazione migliore della Francia, compatta e armoniosa in ogni reparto. E infatti vincono 4 – 1 suscitando la mia curiosità. E ancora non ho visto una partita una degli USA.

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Le Sommer di schiena con il suo caratteristico laccio rosa tra i capelli.

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L’impietoso risultato e una danese truccata e in ordine dopo 94 minuti di partita. 

USA – Francia 2 – 0, la finale.

In uno stadio (l’Algarve Stadium) completamente deserto, le ragazze entrano in campo.

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L’Algarve Stadium e le ragazze in campo prima degli inni nazionali.

La notizia dell’ultimo giorno è la tragedia degli elicotteri in volo in Argentina nella regione de La Rjoca per le riprese di un reality che si scontrano e cadono: muoiono tre atleti francesi (la nuotatrice Camille Muffat, la velista Florence Arthaud e il pugile Alexis Vastine) e sette tra operatori e staff del programma francese. La Francia gioca con il lutto al braccio e gli USA si uniscono nel minuto di silenzio.

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Gli sguardi sospesi delle giovani francesi nel minuto di raccoglimento.

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Sabrina Dellannoy difende (e si difende) dalla truccatissima e curatissima Alex Morgan.

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Camille Abily prova a truccarsi come Alex Morgan.

La partita è equilibrata fino all’episodio del vantaggio USA. Le statunitensi giocano con un ordinato 4 – 4 – 2 con il quale pressano alto chiudendo gli spazi, lottano su ogni pallone e raddoppiano in marcatura su ogni malcapitata francese in possesso palla, hanno un buon palleggio che consente di allargare il gioco con repentini cambi da una parte all’altra; le francesi, schierate con un 3 – 5 – 2 iniziale fanno una gran fatica a opporsi alle incursioni statunitensi, Le Sommer si ritrova spesso sola davanti e infatti emerge la difesa francese che ha in Boulleau e in Butel (centrale) un mezzo muro sulla sinistra anche se tengono abbastanza bene anche sulla destra. A guardare la totalità della partita, la Francia tiene anche bene, perché il primo gol nasce da palla ferma e il secondo è una magia della Christine Press che accelera perforando la difesa francese in un’azione in velocità degna della Hamm.

La differenza è in alcuni dettagli che sembrano superficiali e che risultano invece determinanti; intanto, le ragazze USA sono atlete prima che calciatrici. Hanno una tenuta atletica che quando corrono sembrano gazzelle leggere, i che sottolinea ciò di cui sopra e cioè investire su un movimento che poi farà sì che si possano raggiungere questi risultati. E poi sono americane e l’aspetto femminile, dal trucco agli accessori, serve agli sponsor e a vendere il prodotto. Terribile a dirsi, ma in una società come quella americana che, nonostante sia ad alti livelli, lotta ancora per l’uguaglianza di stipendi, il fattore sponsor è determinante. La sola Alex Morgan è praticamente brava e bella e anche il portiere Hope Solo (che risulterà decisiva salvando un tiro sul possibile uno pari e parando un rigore), sarebbe facilmente passabile come modella. E poi tengono benissimo il campo mescolando tattica a una tecnica e una tenuta fisica che, bisogna ammetterlo, sono di un altro pianeta. Ma credo che lo siano anche perché le americane hanno una concezione completamente diversa del gioco da come lo abbiamo noi: le italiane nascono e crescono avendo il calcio costantemente sotto gli occhi, nelle pagine dei giornali, nei TG, nelle chiacchiere dei fidanzati e anche quando giocano hanno in mente un modello maschile, negli USA non è così. Negli USA il calcio non ha questa dimensione e spesso le calciatrici USA non seguono quello maschile, oltre a giocare come fosse un lavoro. È come se fossero incontaminate e quando giocano questa sensazione è palpabile: perché sembrano tipo quelle ragazzine carine da college, truccate e in ordine, con quel gusto tutto americano da gomma da masticare, che si ritrovano con un pallone tra i piedi e che sembra dicano che è capitato, come capita che piova.

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La concentrazione di Hope Solo dopo il rigore parato.

Il vantaggio USA nasce da un calcio di punizione fischiato dall’arbitro donna dai capelli biondi tinti il cui rendimento, a fine partita, sarà totalmente insufficiente. Fischia una spallata di un difensore francese che è una carezza, tanto è vero che entrambe, difensore e attaccante, non capiscono cosa abbia fischiato. Palla in mezzo nel mucchio, 1 – 0 USA. Quindi, mi dico, se il metro di misura è questo spallata=punizione, trattenuta=ammonizione, la spallata a Le Sommer nel capovolgimento dopo il gol è rigore, ma no. Inoltre l’arbitro donna dai capelli biondi tinti si macchia di un comportamento che addirittura i commentatori definiscono “ridicolo”: in modo snervante, a ogni punizione con mucchio annesso in area, lei richiama costantemente le giocatrici a non alzare le mani bla bla bla, cioè così ogni volta. Talmente fiscale che la soluzione sarà solo nel leggere la sua bio su Wikipedia: Bibiana Steinhaus, di professione poliziotta. Ah, ok.

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Anaig Butel guarda a vista Sidney Leroux.

La Francia soffre, anche perché è un mistero la scelta della formazione iniziale con Dali e Lavogez fuori; e infatti quando entrano entrambe al ’58 e la Francia gioca con il 4 – 4 – 2 la partita cambia. Le francesi sono più equilibrate, Boulleau sulla sinistra e Dali sulla destra vanno che è una bellezza crossando continuamente e anche il peso della Lavogez in aiuto alla La Sommer si sente. La Francia ottiene anche un rigore, ma Hope Solo diventa l’eroina della gara parandolo.

Le giocatrici si chiamano Amy, Hope, Christine, Laure, Ali, Kelley, Sarah, Eugenie, Abby, ragazze che se le vedi sui loro profili instagram sono ragazze normalissime. Sono esempi dello sport per lo sport.
Vincono gli USA, gioia e soddisfazione e titolo strappato alla Germania vincitrice della scorsa edizione, Le Sommer vince il premio miglior giocatrice e io eleggo la mia preferita, sorpresa assoluta per me: la ventottenne n.3 terzino sinistro del PSG e della nazionale francese, Laure Boulleau.
Sarà che anche il calcio femminile è cambiato ai livelli alti, sarà che non vedevo giocare le ragazze a calcio da milioni di anni, ma il gioco di questo terzino è impressionante. Corre come un furetto dal primo all’ultimo minuto, ha un senso della posizione perfetto, pressa come una dannata sul portatore palla, è sempre in anticipo sull’attaccante avversario, difende rientrando con una velocità che a me stavano già cambiando un polmone dopo la prima accelerata, avanza costantemente, diventando un’ala vera e propria e quando è troppo oltre rientrano o Dali o Lavogez che ali lo sono per davvero. A mio avviso ha fatto un’Algarve Cup veramente di alto livello e davvero notevole.
Terzino moderno che difende e accelera nel disimpegno, per il discorso di cui sopra, l’aspetto estetico, almeno fino a che non le si vedrà solo come atlete con quella rivoluzione culturale che negli Stati Uniti è iniziata vent’anni fa, al momento aiuta. Per cui, vi lascio con la mia MVP dell’Algarve Cup 2015, ma forse solo perché quando giocavo ero ala.

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Alex Morgan, sempre truccatissima, tra Laure Boulleau e Eugenie Le Sommer.

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Boulleau mentre si disseta.

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Boulleau in un’azione di gioco con la maglia del PSG.

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Boulleau bionda.

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Boulleau che ci fa il cuore e ama tutti noi.

(Le foto belle sono da internet, quelle sfocate e storte le mie) 

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