io, te e cinque dollari

Unknown

“Non ci serve altro.
Un paio di paglie, due caffè e un po’ di conversazione.”
È quello che dice Troy a Lelaina, passeggiando per consolarla dopo una litigata con l’amica Vickie e illustrandole il percorso da quanti lavori era stato licenziato.
Era il 1994 quando sugli schermi dei cinema indipendenti veniva proiettato quel gioiellino di Reality bites (per noi italiani “Giovani, carini e disoccupati“), prima regia di quel Ben Stiller che poi avrebbe avuto ben altro impatto nella cinematografia americana.
E oggi che sono passati vent’anni da allora, è uno di quei film che è cresciuto con noi e che, a riguardarlo per la milionesima volta, ricorda indelebilmente come eravamo e fa sospirare vedendo come siamo diventati.

In quel film, recitavano una Winona Ryder nel pieno della sua giovinezza e della sua carriera, con il suo taglio sbarazzino e il suo abbigliamento grunge tipico dell’epoca e che creava imitazione a più livelli planetari, anche in una ventenne riminese che sognava di fare fumetti e scrivere storie belle, e quell’Ethan Hawke che di fronte al successo continuava a non volerlo affrontare, vivendo in un camper fino all’arrivo di Uma Thurman nella sua vita, e con comprimari eccellenti, da Janeane Garofalo a Steve Zahn a John Mahoney, attori “alla Greg Kinnear” che si vedono in diversi film che piacciono e dei quali immancabilmente non si ricorda mai il nome.
Erano gli anni del grunge in una Houston solare. immagino ci sia un perché gli americani decidano di ambientare alcune storie in precise città; in questo caso, fosse stata Houston una piccola Seattle di quegli anni, bell’idea. Forse siamo troppo abituati a un modello di cinema americano nel quale se non è New York è Los Angeles oppure San Francisco, New Orleans risulta esotico oppure Philadelphia che automaticamente ricorda pugilato e AIDS, ma probabilmente è lo stesso effetto che fece per dire Santa Maradona ambientata a Torino invece che nelle solite Milano e Roma e va da se che negli anni molte città sono state sdoganate, come persino Treviso in un altro gioiellino italiano, Le acrobate, di Silvio Soldini con Licia Maglietta e Valeria Golino come interpreti, film anch’esso di metà anni novanta (1997 per la precisione).
Reality bites era un film piccolo e piacevole, curato in ogni inquadratura con una sceneggiatura ben scritta dai dialoghi semplicemente perfetti e con una colonna sonora che spaccava.
La scena nella quale i quattro amici fanno la spesa in un market del benzinaio penso sia una di quelle che passano alla storia e che raccontano quanto anche un momento come quello possa diventare un ricordo prezioso o quantomeno divertente: l’amicizia, nelle sue forme, molto semplicemente, ecco cos’era.

Gli anni ’90 hanno lasciato tante cose, come questi film e tanti altri sulla scia, come Singles, anni ’90 che a riguardarli adesso, ora, vent’anni dopo, sono stati fondamentali per la mia generazione. Ricordo le critiche nel passaggio: gli ’80 così colorati e pop, i ’90 bisognava ancora definirli perché attraversavano un cambiamento che ci avrebbe traghettato a ciò che siamo oggi, nel bene e nel male, tanto è vero che fummo definiti X. Musica nuova, film nuovi o che almeno cercavano una sperimentazione che potevano ancora permettersi di fare (ricordiamoci che il primo Matrix che ha rivoluzionato tutto è di qualche anno dopo appena), fumetti, telefilm (Twin Peaks su tutti), un mondo che nel cambiamento aveva ancora radici e tentava di trasformarle in qualcosa di buono.
Di buono c’erano film come Reality Bites, film che parlavano di quando si ha vent’anni e si cerca una propria strada nella vita a metà tra ciò che si desidera fare e ciò che si deve fare perché imposto, una nostra microscopica rivoluzione fondamentalmente, forse anche un po’ viziata, perché figli a nostra volta di genitori che avevano fatto il ’68 (o attraversato), ragazzi nei ’60 e che si affacciavano negli ’80 del boom con ancora la vita davanti; Reality bites inoltre ci fa vivere una splendida storia d’amore anni ’90 appunto che in realtà è l’analogia a un significato ben più profondo e, di fatto, a ciò che anche noi sognavamo, non foss’altro un ragazzo figo come Ethan Hawke in quegli anni per il quale perder la testa e il cuore.
Un film fresco, anche oggi che di candeline ne spegne venti, un film che si è fatto amare e che a chiunque sarebbe piaciuto raccontare.
Fa parte di quei film che io annovero nella definizione “i miei film”, le storie che volevo raccontare e che, in parte, ho fatto, quelle storie che lasciano un marchio ben distinto nella propria anima.
Ed è un film che, vent’anni dopo, si riguarda con lo stesso entusiasmo con il quale venne visto la prima volta.
Un’alba, due amici che camminano in una piazza che da sul fiume con dei bicchieri di carta in una mano e, nell’altra, una sigaretta, e chiacchierano: è un film che fa ricordare quanto bastava poco per essere felici di un momento.
Io, te e cinque dollari.

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